Note a margine di un incontro col (presunto) Comitato Invisibile

02/03/2024

Nella cornice di un’affollatissima saletta dell’università di Torino, il primo marzo abbiamo partecipato a un incontro col Comitato Invisibile, pseudonimo collettivo del gruppo francese autore di L’insurrezione che viene, Ai nostri amici e Adesso (questi ultimi due link in inglese). Quindi Comitato Invisibile, o presunto tale.

Di Comitato Invisibile avevamo già parlato in un articolo sulla violenza politica; qui qualche nota a margine della discussione.

Venerdì 1 marzo, ore 18:30, campus Einaudi (Saletta Break) Una volta c'era il movimento / E ora?

L’incontro è iniziato con un’analisi di alcune rivolte che negli ultimi anni hanno mobilitato grandi masse di persone in Francia: i gilet gialli, la lotta contro la riforma delle pensioni e l’attuale rivolta degli agricoltori. Rivolte che da questo lato delle Alpi abbiamo accolto come momenti cruciali nello sviluppo di una risposta all’attuale sistema (capitalista, neoliberista, razzista), un principio di rivoluzione. Per Comitato Invisibile questa lettura è sbagliata.

I gilets jaunes, la rivolta delle banlieue e il Soulèvements de la Terre sono state in realtà delle enormi sconfitte rispettivamente per il proletariato, per le persone marginalizzate nelle periferie e per la borghesia benpensante ed ecologista – e così tutte le altre lotte che hanno animato il panorama francese. A ogni protesta è seguito un giro di vite della repressione, ogni intenzione rivoluzionaria è stata pilotata verso gli interessi del sistema (gilet gialli e agricoltori ne sono il migliore esempio), ogni sollevazione è lentamente scemata fino all’irrilevanza, lasciando solo stanchezza e un generale senso di fallimento.

Perché tutto questo? La risposta del Comitato Invisibile (in Ai nostri amici):

Senza un’idea sostanziale di cos’è la vittoria siamo destinati alla sconfitta. La sola determinazione insurrezionale non è sufficiente; la nostra confusione è troppo fitta.

Oggi non siamo in grado di vedere come sarà la nostra vita dopo la rivoluzione e, quindi, non siamo in grado di raggiungerla. Non sappiamo come mangiare, vestirci, lavorare o non lavorare senza il capitale. Di più, non sappiamo come amare, fare amicizia, scopare, essere noi stessə senza smartphone, senza social media, senza soldi: il capitale, il sistema che vorremmo combattere, ormai è parte della nostra stessa soggettività, molto più di quanto potessero immaginare i socialisti del primo Novecento. Come possiamo pensare di liberarci di tutto questo senza saper offrire un’alternativa?

Comitato Invisibile fa una proposta apparentemente vigliacca: scomparire. La lotta politica per come l’abbiamo conosciuta è ormai troppo compromessa, sia perché la controinsurrezione è ormai una macchina di governo ben oliata, sia perché le stesse lotte sono occasione di consumo in forma capitalista. L’estetica della rivoluzione, il selfie dell’antagonismo, il radicalismo da tastiera sono modi per convertire il sentimento rivoluzionario in gesti inefficaci.

Scomparire, dunque, evitare il conflitto aperto, evitare di darsi un nome e un’organizzazione riconoscibile dal potere. Ma scomparire per fare cosa?

Fare la comune. Ovvero lavorare assiduamente a costruire i mezzi necessari a renderci indipendenti dal capitale, riappropriarsi dei mezzi di sussistenza, tessere reti di collaborazione dentro e fuori lo spazio della comune, cospirare per accrescere la propria forza – e «procrastinare la nostra apparizione in quanto forza sino al momento opportuno» (L’insurrezione che viene). (La pazienza, diceva Lenin, è una delle due virtù dellə rivoluzionariə. L’altra è l’ironia, che secondo il Comitato Invisibile a Lenin mancava.)

Ma soprattutto, scomparire e renderci indipendenti dal capitale sul piano personale, costituirci come soggetti tramite relazioni diverse. Riscoprire la gioia effettivamente rivoluzionaria di partecipare a «una potenza collettiva che sia in grado di dissolvere la sensazione di affrontare il mondo da soli» (Ai nostri amici) – qualcunə all’incontro ha citato Per una rivoluzione degli affetti. Questa gioia, la gioia dell’incontro, che sopravvive a ogni tentativo del capitale e dello stato di costituirci come soggetti secondo le loro regole, è la vera base dello spirito rivoluzionario.

A chi gli domanda cos’è oggi la rivoluzione, il Comitato Invisibile risponde: «Il momento in cui ogni persona si chiede: cosa cazzo voglio fare della mia vita?»

C’è un punto fondamentale nel discorso di Comitato Invisibile, un punto su cui non troviamo unanimità. Il problema è se esista o meno un’alternativa al capitale, qui e ora. No, secondo un “compagno marxista” che partecipava all’incontro: non ci sono vere alternative, “crearsi il proprio orticello” è nel migliore dei casi inutile, non esiste nulla al di fuori dell’attuale sistema e possiamo solo aspettare che il sistema stesso deflagri per le sue contraddizioni interne.

Oppure sì. Come per il Comitato Invisibile, anche per noi l’alternativa immediata è possibile: c’è un fuori dentro il sistema. Anche se non abbiamo ancora vissuto l’esperienza della comune, quel sentimento collettivo ci pare di conoscerlo. Il capitale non può darci un certo riconoscimento del nostro essere queer e trans* (che significa eccedere sempre noi stess3), ma l’abbiamo trovato creando reti piccole ma resistenti di persone di cui ci fidiamo. Un riconoscimento che non passa attraverso la visibilità e il renderci intelleggibili e incasellabili, ma passa attraverso la condivisione, lo scambio e la creazione comune delle nostre identità con le persone che amiamo. Un riconoscimento che non è darsi un’etichetta, ma poter condividere la propria mutevolezza e le proprie contraddizioni. Un riconoscimento che non è un freddo “rispetto”, ma una condivisione di gesti di cura e di visione del futuro. Ma soprattutto essere felici insieme.

 Alla domanda «qual è la vostra idea di felicità?». Marx rispondeva: «Combattere». Alla domanda «perché combattere?», noi rispondiamo che ne va della nostra idea di felicità.

(Ai nostri amici)

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