Perché dovremmo farci carico della violenza politica

La forza della nonviolenza e L’insurrezione che viene: un dialogo in cui Judith Butler pone le domande e Comitato Invisibile avanza le sue proposte

31/07/2023
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Qualche anno fa, con un gruppo giovanile LGBTQ, mi è capitato di partecipare a una discussione sulla violenza politica. Squadre di fasci che ti pestano, antifa che pestano i fasci, BR, polizia e altre figure fantasmatiche, venivano tutte usate per cercare di rispondere a una domanda: quando la violenza è giustificata?

La domanda scaturiva dalla condizione condivisa di persone esposte a vari tipi di discriminazioni e atti di violenza più o meno istituzionalizzata ma spesso negati nel discorso politico. Soggetti e comunità che vivono la paura di una violenza possibile, se non probabile, e unidirezionale – da cui emerge la loro vulnerabilità, l’esposizione senza possibilità di replica. Allora la domanda nasceva in questi termini: se la violenza è uno strumento usato contro di noi, perché non dovremmo usarla per noi? Perché limitarci ad avere fede nella forza della nonviolenza?

A questo punto, inaspettatə, irrompeva nella stanza unə certə filosofə statunitense, teoricə tranfemminista queer, che incurante della nostra perplessità attaccava:

Non c’è modo di nominare qualcosa come violenza o non-violenza al di fuori di quella cornice concettuale in cui quelle designazioni assumono valore […] Non possiamo semplicemente assumere una definizione già data di violenza per poi avviare dibattiti morali a proposito di una sua giustificazione, senza aver prima esaminato criticamente come sia stata circoscritta la sua definizione e quale sua versione sia presupposta da questo o quel dibattito.”

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Noi basitə, contemplando la pochezza della nostra valutazione politica. Poi procedevamo a cacciar fuori lə filosofə.

O almeno, così mi sono immaginatə che sarebbe potuta andare quella discussione mentre leggevo La forza della nonviolenza di Judith Butler (disponibile qui in inglese). In realtà nessunə post-strutturalista è venutə a interromperci e il dibattito sempre più acceso è stato confuso e frustrante, e sempre meno utile. (Il mio contributo è risultato verboso e incomprensibile, ed ecco tutto quello che ho in comune con Butler.)

Scherzi a parte, affrontare un discorso critico antiessenzialista come quello proposto in La forza della nonviolenza può essere frustrante, può sembrare inconcludente o bloccarci, riempiendoci di fuffa. Trovo però qualcosa di profondamente politico nel modo in cui la violenza viene affrontata nel testo testo di Butler: politico in questa accezione, cioè di un desiderio non delegabile, strettamente personale e situato, ma fondamentalmente condiviso, di scegliere come vogliamo vivere.

Butler ci mette di fronte alla necessità di una teoria ed elaborazione critica della violenza, da cui non possiamo prescindere per l’azione politica, sia essa considerata “violenta” o “nonviolenta”.

Per rispondere alla nostra domanda di quando la violenza è giustificata, non possiamo affidarci completamente all’idealismo, né al pragmatismo. È all’intersezione tra idealismo e pragmatismo, tra teoria e circostanza, che dovrebbero nascere le pratiche politiche, intrecciate a una presa di responsabilità, che è la responsabilità di creare visioni, comunità e mondi diversi.

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Violenza sistemica

È importante esplicitare la cornice concettuale in cui si situa la violenza per come viene affrontata nel testo. Una dimensione di violenza strutturale è teorizzata per la prima volta da John Galtung nel 1969, ed è comune al femminismo, all’antirazzismo, al post- e decolonialismo e in generale all’elaborazione di tutti quei gruppi che si riconoscono soggetti a forme di oppressione e che rivendicano la propria liberazione (come i nostri giovani LGBTQ).

È un pensiero che prende in considerazione non solo i singoli atti di violenza, ma le narrazioni, i contesti, le relazioni, le strutture in cui questi avvengono – in breve, la dimensione sistemica della violenza.

La violenza subita è generalmente vissuta nel discorso pubblico come la dimostrazione ultima del fatto che alcune persone sono più “vulnerabili” di altre, che rispetto alla persona “normale” sono più esposte a certi rischi e necessitano di assistenza specifica. Butler, di fronte a questo tipo di definizione, pone un quesito: chi dovrebbe fornire questa assistenza? Presumibilmente – risponde – persone non esposte alle stesse forme di violenza e che, dunque, possono permettersi di decidere a chi riservare parte della protezione di cui godono.

Per fare un esempio, noi persone con documenti italiani sappiamo che di solito ci possiamo spostare facilmente e senza rischi o pericoli, che nella peggiore delle ipotesi sono presenti forze dell’ordine, istituzioni (come i consolati) o anche solo conoscenti o estranei che ci possono aiutare in caso di necessità. Di contro, vediamo come alcune persone incontrino enormi difficoltà a spostarsi, e come debbano affrontare condizioni pericolose, marce estenuanti, detenzioni e morte. Eppure, chiunque di noi sarebbe esattamente nella stessa situazione di unə migrante irregolarizzatə senza tutte le reti di supporto e protezione che oggi sono loro negate e che, nella migliore delle ipotesi, vorremmo invece fornirgli.

Ma allora subire violenza deriva non da una caratteristica dei “gruppi vulnerabili” stessi, ma da una distribuzione diseguale della protezione dalla violenza stessa; quella stessa protezione che, in modo paternalistico, può poi essere estesa o meno. Quindi, a meno di essenzializzare questa disuguaglianza relegando le persone a essere “soggetti vulnerabili” (è questo il caso delle donne che subiscono violenza), dobbiamo concepire questa “vulnerabilità” come il frutto di un sistema che comprende tanto le persone esposte alla violenza quanto quelle protette (o “protettrici”).

Butler quindi partecipa di una concezione radicalmente sistemica della violenza, per cui è impossibile scindere l’atto violento dalle strutture – statali, culturali, materiali – che lo producono (anche se, ovviamente, l’atto violento non è solo sistemico). In questo contesto, una persona migrante morta in mare è il prodotto di un sistema di politiche nazionali e internazionali, di flussi di merci, di idee e narrazioni. E in quel sistema ci siamo tutt3: chi subisce violenza, chi la perpetra, chi la osserva indifferente e chi la denuncia.

Cercando un meccanismo alla base di questo tipo di violenze, che prescinda da condizioni storiche particolari, Butler identifica una distribuzione differenziale della dignità di lutto.

Violenze basate sul colore della pelle, sul credo religioso, sul genere, sull’etnia, sull’orientamento sessuale ecc. hanno in comune l’idea che alcune vite valgono e alcune no, che la perdita di alcune è effettivamente vissuta come una perdita (nota) – che porta con sé dolore e lutto – e che quindi alcune vite meritino i sistemi di sostegno negati ad altre.

A partire dal discorso più generale, è poi importante entrare nella specificità delle singole forme di discriminazione. In un’ottica intersezionale e queer, comprendere come si costituiscono e come interagiscono tra loro diverse forme di violenza è necessario per costruire uno spazio comune di lotta.

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Designare la violenza

Concepire la violenza come sistema libera le soggettività discriminate dal percepire quella discriminazione come una loro caratteristica intrinseca, e questo è fondamentale per iniziare a costruire le loro identità fuori dall’oppressione in cui si sono costituite (nota).

La visione sistemica non cancella però i singoli atti violenti vissuti da quei gruppi, atti che devono essere combattuti giorno dopo giorno; anzi, sembra ridurre persino lo spazio per l’azione politica perché impedisce di cercare rifugio nel sistema maggioritario. Non possiamo affidarci a una forza di polizia, a una forza giudiziaria, a un’istituzione medica, perché quelle stesse istituzioni fanno parte del sistema che ci ha oppress3. Ogni forma di resistenza che si basa sul supporto di queste istituzioni può essere al massimo un palliativo, che rischia di darci una protezione oggi che è solo dipendenza da chi, domani, può reprimerci (la polizia al pride).

La lotta sale quindi di livello, e diventa una forma di resistenza contro l’istituzione oppressiva. Qui avviene un passaggio fondamentale: l’opposizione pacifica al sistema, l’azione nonviolenta collettiva o anche solo i discorsi critici vengono descritti come violenti dal sistema, indipendentemente da quanto siano sbilanciate le forze del dissenso rispetto a quelle del sistema, o di quanto sia palese l’ingiustizia denunciata. 

Per fare due esempi recenti, l3 attivist3 di Ultima Generazione sono additat3 come violent3 dallo stato e dai media, come se il collasso ecologico e tutta la morte che comporta fosse comparabile con la vernice a base d’acqua che macchia i simboli dello stato. Allo stesso modo, le persone che fuggono da condizioni misere e muoiono alle “porte” di una nazione che consapevolmente le respinge sono raccontate come un’orda di invasori. Il designare certi gruppi come violenti, va da sé, diventa giustificazione per la repressione del dissenso.

In questo senso, non c’è un’azione che sia davvero nonviolenta, perché nel combattere contro l’oppressione saremo sempre designat3 come violent3 da chi difende il sistema.

Il rifiuto del riformismo pacifico nasce dal capire che il sistema che combattiamo non funziona per gradi e non accetta davvero nessuna riforma. La violenza è strutturale e sia perpetrarla che designarla è sempre strumentale al mantenimento di quel sistema. 

La necessità della valutazione sulla violenza per me parte proprio da qui: prendere atto di un sistema che avrà sempre obiettivi opposti ai miei, e che quindi mi tollererà quando sarò inoffensivə e mi reprimerà quando sarò una minaccia, che abbia un sanpietrino o un fiore in mano.

A questo punto però Butler ci fa notare che non abbiamo ancora analizzato come sia stata definita la violenza, o meglio, quale sistema abbia dato quella definizione di violenza per difendersi. È una valutazione critica che dobbiamo fare tanto rispetto alla definizione di violenza data dalle istituzioni, quanto a quella che noi vi opponiamo.

 

La violenza in sé, la violenza in me

Butler ci conduce in questo modo in un terreno davvero difficile. Due processi agiscono insieme, e sembrano delegittimare le nostre azioni politiche. Da un lato, la definizione di cos’è violento data dal potere ci fa rientrare nel campo dell’azione violenta, che lo vogliamo o meno. Dall’altro, proprio quella relatività nella definizione di violenza ci impedisce di sostenere che ci sono violenze vere (quelle del sistema ingiusto) e violenze false (le nostre azioni, definite violente dal sistema). Giustificando le violenze di alcuni gruppi, come ad esempio le forze di liberazione, e non di altri, come le forze di polizia, ripetiamo lo stesso meccanismo di fondo usato dallo stato. Il problema è proprio che in un’ottica post-strutturalista, non possiamo immaginare una definizione assoluta di violenza, sia essa fenomenologica, morale, pratica…

Penso alla famosa frase di Audre Lorde: «non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone». Abbiamo la sicurezza che, se fossimo noi in posizione egemonica, la nostra definizione di violenza non potrebbe essere uno strumento di oppressione? Nella storia dei regimi socialisti del Novecento trovo numerosi esempi di come idee di violenza per me condivisibili abbiano portato a società ingiuste. Può sembrare un cul-de-sac, un’idea disfattista, ma è un pensiero che ritengo necessario e utile fare per agire politicamente. Voglio sostenere che la violenza insita nel designare cos’è violento è propria di ogni progetto politico.

La possibilità di commettere questa violenza però apre a delle dimensioni inaspettate e a delle riflessioni fertili. Torna utile un parallelo con la dimensione personale o diadica della violenza (quella del gesto agito da una persona su un’altra). Abbiamo già discusso di come il romanzo di non-fiction risponda a “un bisogno di provare a capire o almeno a figurarsi la violenza” di cui siamo individualmente e personalmente capaci. Questa esperienza di violenza, non agita ma comunque reale, può formarci sul piano emotivo e intellettuale, interrogarci sul potere delle nostre azioni e farci decidere dove porre i limiti di questo potere.

Certo, portare quest’esperienza nel campo politico e nella dimensione sistemica non è facile, e non sono sicurə che possa essere fatto in modi tanto diretti quanto nel romanzo. Forse scegliere i metodi della filosofia e della teoria critica ci dà la distanza necessaria a poter parlare di violenza politica pur sapendo che, se nella dimensione personale ci diciamo che non agiremmo davvero violenza su un’altrə, in quella politica dobbiamo ammettere che lo faremmo su certi gruppi – quantomeno dalla loro prospettiva.

Per me, proporre queste valutazioni non ha tanto la funzione di ammonire o invitare alla moderazione, come non lo ha per Butler. Parafrasando Comitato Invisibile, di cui parlerò tra poco, penso che se una questione non ha soluzione, se impedisce l’azione e non offre alternative, non è una questione che ha senso porsi (specie non in questo momento, in cui il futuro si riempie sempre più di minacce al sistema e di occasioni per cambiarlo). Al contrario, credo che questo pensiero abbia una grande forza, proprio perché è difficile, scomodo, per certi versi inquietante. Tutto il ragionamento sulla violenza si basa su un vivo interesse per il benessere delle persone, sulla ricerca di soluzioni che non rispondano a certi problemi a scapito di altri, su una tenace volontà di stare a contatto con il problema. Soprattutto, si basa una fortissima presa di responsabilità, che va oltre il desiderio di ottenere una risposta semplice e universale. Nelle parole di Butler:

“Per quanto non possiamo decidere se la violenza sia giustificata o meno senza prima sapere cosa sia considerato violento, non possiamo però rinunciare alla richiesta di stabilire la differenza tra violenza e nonviolenza. L’attività critica, in altre parole, non può prescindere dall’impegno e dal giudizio.

Impegno, per me, vuole sempre dire azione, nello stesso modo in cui una teoria realmente politica si traduce in pratica. E quest’impegno è quello di creare sistemi che non ripropongano le dinamiche di oppressione che viviamo tutti i giorni. Ovviamente credo che questo sia possibile, e credo anche che sia possibile definire la violenza, e di conseguenza la nonviolenza, in modo coerente a quest’obiettivo. 

Seguendo il pensiero di Butler, se riuscissimo a creare un sistema giusto, che non usa la violenza come strumento per reprimere chi non è d’accordo, questo non sarebbe un sistema che si regge su una diversa definizione di violenza (la nostra), ma piuttosto su una diversa “cornice concettuale”, ossia un sistema nonviolento.

Sostengo la possibilità e la necessità di costruire un sistema nonviolento definendo quali siano per noi i valori che esprime, le soggettività che vi partecipano e il ruolo che la violenza ha in esso. Può sembrare un discorso molto astratto, ma penso che due testi, per certi versi inaspettati, offrano un chiaro esempio di come possiamo farlo: sono L’insurrezione che viene e Ai nostri amici di Comitato Invisibile.

Scarica L’insurrezione che viene

Scarica Ai nostri amici (inglese)

 

Amici amici e poi…

Cosa può dirci sulla nonviolenza un gruppo di anarchich3 brutt3 e cattiv3? Soprattutto, cosa può dirci nel momento in cui sono l3 prim3 a gioire delle rivolte violente delle banlieue nel 2005 e in Val Susa e a deridere le deliberazioni democratiche delle proteste di Occupy? In realtà ci possono dire molto.

Nelle righe successive userò il termine violento col suo senso comune (dove spaccare una vetrina è un gesto violento, mentre fare un corteo tendenzialmente no); questo proprio perché voglio descrivere un insieme di valori, e mostrare come essi eccedano sempre qualunque definizione specifica di violenza gli si possa attribuire.

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Innanzitutto, mi voglio soffermare su due proposte pratiche avanzate dal Comitato. La prima è la necessità di non dividere mai un movimento tra una parte pacifista e una violenta (pensiamo ai no-global e ai black bloc). Ispirandosi alla lotta No-Tav, Comitato Invisibile sottolinea l’importanza di mostrarsi come un fronte compatto, da un lato, e dall’altro di mantenere sempre la possibilità che qualsiasi persona, anche la più insospettabile, agisca il suo dissenso in modo violento, per poi magari ritornare a essere parte della protesta pacifica. Nella loro visione, lo stato deve avere paura che chiunque, dalla vecchietta al ragazzino, possa in qualsiasi momento diventare rivoltosə, senza la condanna o la ghettizzazione da parte del movimento (in senso opposto, nessunə deve sentirsi in obbligo di fare azioni violente per essere parte di un movimento radicale e sovversivo).

La seconda proposta è che, partendo da un rifiuto del pacifismo quale valore in sé, le persone in rivolta imparino i metodi per difendersi, da un lato armandosi e dall’altro evitando lo scontro diretto con la polizia. “Le armi sono necessarie: l’importante è fare di tutto affinché il loro utilizzo sia superfluo.” Solo chi ha accesso alla violenza, conclude Comitato Invisibile, può essere davvero pacifista.

Arrivat3 a questo punto sembra davvero di avere a che fare con delle persone spregiudicate, che con cinico realismo prevedono e giustificano sopraffazione, dolore e morte pur di realizzare la loro visione. Non è così.

Quello che colpisce e fa impressione dell’atteggiamento di Comitato Invisibile è l’estrema noncuranza rispetto al fatto di essere definit3 violent3. Con una sicurezza che pare pura intuizione (“l’intelligenza strategica viene dal cuore e non dal cervello”), l3 autric3 non si preoccupano di giustificare azioni che gran parte dello spettro politico considera violente. Comitato Invisibile non è costretto a valutare l’uso della violenza, è consapevole che le sue azioni saranno in ogni caso designate come violente da un sistema che non riconosce come legittimo. È la sicurezza nel proprio sistema di valori (verità etiche che “si provano ma non possono essere provate”) che permette loro di essere così apparentemente indifferenti. Questa sicurezza permette loro di vedere la condanna della violenza da parte dello stato non come una morsa che riduce all’impotenza ma come una linea che divide chi si sente partecipe di quei valori e chi no. Un luogo di dimostrazione e crescita della propria proposta politica invece che della sua messa in discussione.

Si può obiettare che questa sicurezza è mal riposta, che sono sbagliati i presupposti della lotta anarchica allo stato (Butler stessə non la condivide appieno), e lo scenario dell’insurrezione nelle strade che Comitato Invisibile auspica può e dovrebbe fare paura. Tuttavia, si tratta secondo me dello stesso tipo di violenza (sempre in senso comune) che si mette in atto nel creare alternative a qualsiasi oppressione, sia essa patriarcale, economica, razziale, specista ecc.

Comitato Invisibile mostra la sicurezza di sapere a chi e per chi sta parlando. Ai nostri amici, appunto. La loro idea di un comunitarismo e mutualismo radicale si basa tanto su proposte dirette e pratiche, quanto su una profonda elaborazione di cosa sono la giustizia, la comunità, la soggettività, la natura. Con le differenze sostanziali che ci sono tra un testo più accademico come La forza della nonviolenza e un manifesto come Ai nostri amici, le conclusioni a cui giungono Butler e Comitato Invisibile sono molto simili.

Vivere in un sistema violento (per come lo abbiamo definito con Butler) porta a fare considerazioni molto più ampie rispetto alla violenza stessa. E questo non per lavarsi le mani della materia sporca che è la violenza, ma per affondarcele ancora di più, e scavare tanto nei significati che crea quanto nelle idee che la costituiscono, fino a immergersi completamente e raggiungere quello che sta sotto, quel nocciolo di idee e valori per cui sentiamo di dover lottare, le verità etiche che “si provano ma non possono essere provate”.

 

Prospettive per il futuro

Un punto su cui Comitato Invisibile torna spesso nei suoi testi è quello di “accrescere costantemente il livello e l’estensione della [propria] autorganizzazione”. Sul piano umano, trovando le persone con cui legarsi e condividere la propria lotta; sul piano intellettuale, appropriandosi di conoscenze e pratiche, che siano l’agricoltura o il primo soccorso, l’hackeraggio o il cucito; sul piano materiale, occupando spazi, ottenendo macchinari e utensili. Tutto questo è funzionale a creare la comune, che “è una qualità del legame e una maniera d’essere nel mondo”, un “rapporto comune”, “il patto di affrontare insieme il mondo”, “legarsi”.

Nella comune si uniscono quindi pratiche e pensieri (o cornici concettuali), e questi non sono due aspetti diversi, ma un tutt’uno. Allo stesso modo in cui le pratiche di morte, sopraffazione e violenza dei sistemi che viviamo sono tutt’uno coi valori (coloniali, razzisti, patriarcali…) con cui decidono quali vite valgono e quali no. Tramite il pensiero di Butler ho cercato di mostrare la necessità di creare delle cornici concettuali da opporre a quelle che ci opprimono, e tramite i testi di Comitato Invisibile di mostrare come questo può avvenire.

In particolare, ho voluto sostenere l’indissolubilità di pratiche e concetti nel campo della violenza, sostenendo la necessità di interrogarsi sul ruolo che la violenza ha nei nostri valori, un processo estremamente difficile ma estremamente potente per creare pratiche condivise di autodeterminazione.

Pensare a un mondo diverso è l’unico modo di rispondere a una violenza sistemica, ma nel momento in cui mi pongo quest’obiettivo avverto anche una necessità molto chiara: di non farlo dal solə. Concepisco la dipendenza di questo mondo nuovo dalle persone che, intorno a me e con me, lo vogliono vivere; dalle azioni che compiamo e compiremo; dalle risposte che possiamo dare ai problemi che ci pone, e dai nuovi problemi che possiamo noi creare.

So che, in ultima analisi, non c’è nulla di strettamente obiettivo o necessario nelle considerazioni sulla violenza che ho presentato. Credo che ogni parte della valutazione possa essere ragionevolmente criticata. Ma in un certo senso lo rivendico. Di fronte a un sistema violento, che vive anche del definire violento chi vi si oppone, io rivendico di poter creare uno spazio diverso, che sia autolegittim(at)o proprio perché definito con una concezione diversa.

Come dice Comitato Invisibile, il sistema non verrà distrutto con una deflagrazione, con una guerra o una dittatura. Saranno tutti quei gesti che via via lo svuoteranno, che gli toglieranno legittimità, che lo renderanno semplicemente inutile per le persone che, un giorno, lo vinceranno. Quella vittoria me la immagino come il crollo dell’Impero Romano d’Occidente: una nota storica, una questione bibliografica, cui nessuno allora ha dato l’importanza che gli diamo oggi. L’ultimo carcere che chiude, l’ultimo presidente di una nazione, l’ultima persona con la possibilità di decidere chi vive e chi muore, mentre andiamo avanti con le nostre vite.

 


1: Naomi Klein in Recinti e Finestre offre un esempio illuminante della distribuzione differenziale della dignità di lutto parlando della percezione nell’opinione pubblica occidentale delle vite perse nell’attentato dell’11 settembre e di quelle perse nella guerra in Iraq.

2: Per una panoramica delle “strategie di sopravvivenza identitarie e antidentitarie” femministe consiglio il libro: Storia delle storie del femminismo.

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