00v
Cemento mori: contro il dualismo tradizione/modernità
L’effetto Baader-Meinhof è una brutta bestia. Detto anche “illusione di frequenza”, si tratta della sensazione che qualcosa (un tipo di macchina, una città, un gruppo di lotta armata anarco-rivoluzionario tedesco) inizi ad apparire o essere menzionato dappertutto. Chiaramente un’illusione, appunto.
Ma delle volte capita di seguire una lezione in un corso di Permacultura sulle costruzioni tradizionali/alternative (terra cruda, paglia, mattoni crudi, muri a secco…), e di scoprire come la diffusione del calcestruzzo armato impedisca oggi di recuperare queste tecniche; e poi trovare, il pomeriggio stesso al Salone del Libro, Cemento arma di costruzione di massa di Anselm Jappe. E io, che sfortunatamente sono ingegnere quasi-civile (ingegnere ambientale, ma nessuno sa cosa sia), capisco che è segno: la mia elaborazione politica dovrà abbracciare anche il buon vecchio béton.
Vecchio ma non così tanto, come spiega Jappe. Nonostante il cemento esista fin dai tempi dei romani, per cui aveva relativamente poche applicazioni, è solo l’invenzione del calcestruzzo armato (misto di cemento, sabbia e acqua con un’armatura di acciaio) nella seconda metà dell’Ottocento che permette lo sviluppo dell’architettura moderna, con tutti i suoi orrori estetici (secondo l’autore) e i suoi fallimenti mortali. Tra questi, in particolare, il Ponte Morandi, costruzione in calcestruzzo armato precompresso, il cui crollo ispira la stesura libro.
Se la riflessione si fermasse qui, come può succedere in una lezione di un paio d’ore, il problema sarebbe chiaro: la tradizione ha qualcosa di essenzialmente superiore alla modernità, qualcosa che per essere riacquistato necessita di abbandonare le tecnologie contemporanee.
Questa narrazione mi lascia profondamente insoddisfattə. Benché mi consideri antimodernə – un po’ earthbound e un po’ metamodernə– rifiuto questo tipo di gerarchie tra il vecchio e il nuovo. Tradizione e modernità sono due concetti estremamente rigidi, ancorati a una visione semplice e dualistica, e nel cercare di dimostrare la superiorità di una sull’altra sacrifichiamo le possibilità che diverse tecniche, valori e pratiche ci offrono.
Ma Jappe ci dice qualcosa di più, qualcosa che emerge da una critica marxista del fenomeno. Per Jappe il calcestruzzo, così come la plastica, rappresenta il lato concreto del valore astratto del lavoro. Senza entrare nel merito, che richiederebbe almeno lo spazio che Jappe gli dedica nel settimo capitolo, questa critica, pur riproducendone certe forme, opera in direzione opposta al discorso tradizione/modernità. Fatti (i problemi strutturali, tecnici e di manutenzione del calcestruzzo), storie (la sua adozione di massa, da Le Corbusier al brutalismo) e opinioni (il valore estetico dell’edilizia contemporanea) non vengono utilizzati per dimostrare un concetto semplice, la superiorità della tradizione sulla modernità. Al contrario, si cerca un concetto – il lavoro sociale astratto – che dia conto della specificità dei diversi esempi portati, che permetta di cogliere cos’hanno in comune senza sovrasignificarli.
Anche la dicotomia lavoro concreto/ lavoro astratto, come sottolinea Jappe, non può essere legata a un giudizio di valore su quale sia preferibile, più “vero” o “naturale”. I due tipi lavoro sono, nel sistema capitalista, inscindibili, e dipendono l’uno dall’altro. Tutto ha sia valore d’uso che di scambio, tanto l’edilizia vernacolare che quella industriale. Se il calcestruzzo è stata la pietra d’angolo della distruzione delle specificità locali e della professionalizzazione dell’architettura, quindi, questo non è dovuto a una sua tendenza intrinseca. Non sono le singole tecnologie a definire la desolazione della modernità, ma è il progetto della modernità ad aver scelto e utilizzato quelle tecnologie per creare questa desolazione. E le stesse tecnologie, se analizzate criticamente, ci possono indicare quale fosse quel progetto, e come combatterlo.
💬 Parlane con noi: scrivici su Telegram
📺 Oppure iscriviti al canale Telegram
Linkano qui: