Perché ho scelto di usare un linguaggio inclusivo

Spoiler: non è un trend e non ha a che fare con le quote rosa.

13/10/2022
la copywriter

Mi capita spesso di vedere affrontato il tema del linguaggio inclusivo come fosse un vezzo di forma tutto contemporaneo, una questione di rispetto o di rappresentazione delle donne. Molte realtà, soprattutto in ambito culturale, scelgono di aggirare la discussione con l’uso della doppia forma maschile + femminile (o meglio, femminile + maschile) oppure, nei casi più arditi, desinenze in -y o in -ə.

Il linguaggio inclusivo, in altre parole, viene usato per evidenziare l’eterogeneità potenziale di un gruppo di persone –  quando ci riferiamo a un gruppo misto di uomini e donne, ma anche quando ci rivolgiamo a ideali clienti, utenti, pubblico, senza dare per assodato che si tratti di soli uomini (spesso non c’è ragione per cui dovrebbero esserlo). E senz’altro questa può essere una delle funzioni del linguaggio inclusivo. C’è però anche un altra maniera di guardare alla questione, una maniera più complessa e che in qualche modo contraddice questo uso.

Cos’è il linguaggio inclusivo

Nella mia doppia esperienza di persona che lavora con le parole e di persona queer, ho raggiunto una definizione abbastanza soddisfacente di quello che voglio intendere quando parlo di linguaggio inclusivo e, di conseguenza, un modo di utilizzarlo che rispetti i miei valori e gli obiettivi comunicativi che mi pongo.

Per quanto mi riguarda, un linguaggio inclusivo è quello che non presume il genere della persona a cui mi sto rivolgendo o di cui sto parlando.

Infatti, ritengo che non sempre sia possibile, né molto utile, indovinare il genere e i pronomi della persona o delle persone a cui mi rivolgo, e questo vale tanto per la comunicazione interpersonale diretta, quanto per quella mediata, e ancor più per una comunicazione testuale generica come quella informativa, pubblicitaria e/o a mezzo digitale.

(Per quanto controintuitivo, visto da quest’ottica anche usare maschile e femminile plurali per rivolgersi a un gruppo apparentemente omogeneo rispettivamente di tutti uomini o tutte donne, non è inclusivo. Più avanti dirò perché.)

Il punto di vista della comunicazione

Dirimente, soprattutto in ambiente digitale ma non solo, è un aspetto diverso ma complementare alla riuscita della comunicazione. Quale che sia l’obiettivo comunicativo immediato – la notorietà, l’autorevolezza, le conversioni ecc. – un effetto collaterale è quello di dare vita a uno spazio astratto, soggettivare l’utente non solo (né principalmente) in quanto “consumatore”. Creare uno spazio di possibile riconoscimento, che ci comprende, ci rappresenta e ci rende visibili in ragione di alcuni tratti salienti (interessi, abitudini e tutto quello che costituisce il nostro target). Ricorrendo agli stessi termini del marketing, tutto ciò che resta fuori dalla definizione del target è superfluo, quando non controproducente, nel descrivere il pubblico.

La mia tesi, alimentata naturalmente anche da convinzioni politiche, è che, a meno di rare eccezioni, il genere è inutile nella definizione del target. È uno di quegli elementi che rimangono e devono rimanere a carico dell’individuo, in un indefinito che può essere riempito di volta in volta dalla singola persona che fruisce.

Anche dal punto di vista retorico e del tono di voce, considerare un target omogeneo in tutti i suoi tratti elimina il singolo, produce un tipo di comunicazione generica e genericamente funzionale che, citando lo scritto di Marc Augé a proposito dei nonluoghi antropologici, mira:

«simultaneamente, indifferentemente, a ciascuno di noi (“grazie per la vostra visita”, “buon viaggio”, “grazie per la vostra fiducia”); non importa chi di noi: [queste interpellanze] fabbricano l'”uomo medio”, definito come utente del sistema stradale, commerciale o bancario. Lo fabbricano e a volte lo individualizzano».

Una comunicazione non alienante è, a mio avviso, quella che lascia degli spazi di libertà che possono essere riempiti dalla persona che ne fruisce in quanto essere umano, e dalla sua singolarità non fissata.

Scrivere al neutro

Anche considerando i pronomi grammaticali come il correlativo del genere, quindi, usare specifici pronomi nei testi digitali è nel migliore dei casi inutile. Per questo ho deciso di usare il neutro in tutti i casi in cui è possibile.

I problemi principali del neutro come spazio di libertà sono soprattutto due: primo, il neutro va effettivamente riconosciuto come tale, interiorizzando l’abitudine a interpretarlo non come una regola esterna ma come una variabile liberamente modellabile e diversamente interpretabile da parte di chi scrive e di chi legge.

Secondo: quando comunichiamo in italiano, che non dispone dell’equivalente del they singolare ed è fortemente dipendente dal genere in tutta la sua grammatica, non c’è una formalizzazione delle strutture neutre comunemente accettata.

Sul come scrivere al neutro tornerò spesso. È un argomento complesso, dal momento che il genere è solo uno dei tantissimi fattori che possono includere o escludere una persona da un discorso scritto, tra gli altri l’accessibilità e il rapporto delle diverse fonemiche regionali con l’italiano standard, cioè due dei principali problemi nelle forme neutre attualmente in uso.

Neutro Singolare

Un discorso a parte, che mi sembra doveroso accennare, è quello del neutro singolare. In poche parole, sostengo la necessità di normalizzare l’uso delle forme neutre per rivolgersi a una sola persona, riportando al singolo la stessa logica degli spazi di libertà che si applica a un gruppo. Ossia: considerando il genere fluido e performativo, e il pronome non in corrispondenza diretta con il genere, mi piace lasciare aperta la possibilità di cambiare o non definire un genere attraverso la parola (parola che fissa e al tempo stesso separa…).

Con ciò aspiro sia alla possibilità altrimenti negata di parlare di persone il cui genere è perlopiù non fissato (persone non binary e gender non conforming), ma anche di permettere alla maggioranza delle persone che si riconoscono in un genere (uno solo!) di sperimentare il genere in modi diversi in tempi diversi, come spazio di libertà del tutto personale, legittimo, soggetto a cambiamento e luogo di potenziale arricchimento sul piano dell’esperienza di sè.

Quindi, normalizzare le forme del neutro singolare è un modo per svuotarle delle loro portato divisivo e delle implicazioni “serie” e del peso che queste hanno in una società ancora permeata fortemente dal paradigma dei due generi complementari.

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