Una macchina che non serve al lavoro è inutile

Una ricerca sulla contemporaneità del mercato del lavoro digitale a partire dal concetto di “macchina per il lavoro” nel Capitale di Marx.

30/04/2023
CollettivoContesto

Recuperiamo e ripubblichiamo per intero un elaborato accademico redatto da Stefano Zuliani nell’ambito del corso di Teoria Critica della Società dell’Università di Milano-Bicocca. Un ringraziamento enorme lo dedichiamo a tutte le persone che hanno reso possibile e continuano a rendere possibile questa esperienza.

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01/06/2021

Una macchina che non serve al lavoro è inutile.

Essa si deteriora inoltre sotto l’influenza distruttiva degli agenti naturali. Il ferro s’irrugginisce, il legno marcisce, la lana non lavorata è rosa dai vermi. Il lavoro vivente deve riprendere questi oggetti, richiamarli in vita e convertirli da utilità possibili in utilità efficaci. Leccati dalla fiamma del lavoro, trasformati in suoi organi, chiamati dal suo alito a compiere le loro funzioni proprie, essi sono anche consumati, ma per uno scopo determi-nato, come elementi formatori di nuovi prodotti.

Lo scrive Marx nel capitolo V del Libro I del Capitale.

Il lavoro è una forma di consumo dei suoi elementi materiali, un «consumo produttivo», scrive Marx, che si distingue dal consumo individuale in quanto: “il consumo individuale ha come prodotto il consumatore medesimo; il consumo produttivo ha come risultato un prodotto distinto dal consumatore.”

Le macchine a cui fa riferimento Marx in questo passaggio, oggetti morti che devono essere richiamati in vita dal lavoro, sono strumenti meccanici per uso perlopiù agricolo o industriale. Già all’inizio del Novecento, tuttavia, cominciava a diffondersi l’interesse teorico per un diverso tipo di macchina, non una macchina «di azione», “intesa a produrre un effetto fisico definito”, ma una macchina «di controllo», come la definirà il matematico Alan Turing, cioè una macchina che manipola solo informazione, come ad esempio le macchine calcolatrici evolutesi a partire da quelle di Wilhelm Schickard e Pascal.

Se in Marx lo strumento meccanico «di azione» ha senso d’essere solo in funzione del lavoro che lo porta in vita, nel corso del Novecento, con la diffusione dei media elettrici e delle macchine a uso domestico, si è apparentemente allentato il rapporto tra strumento e lavoro. Binomi come quelli di macchina di controllo e macchina di azione, consumo individuale e consumo produttivo, lavoro e tempo libero sono stati radicalmente modificati dallo sviluppo delle tecnologie e dai cambiamenti della nostra società.

In queste poche pagine mi propongo di riassumere alcuni degli aspetti salienti e dei problemi portati alla luce dall’emergere del mercato del lavoro digitale.


Premessa

Per orientarmi nel discorso sugli ultimi trent’anni, vorrei prendere come estremi due momenti della storia recente.

🚩 Il primo è il 6 agosto 1991, giorno in cui fu pubblicato il World Wide Web.

In quel momento l’intento di Berners-Lee e dei suoi colleghi era di “fornire un accesso universale a un vasto universo di documenti”. Per farlo crearono un browser e resero disponibile il codice sorgente. Se prima il lavoro intorno al digitale era limitato a sviluppo e produzione di macchine con sempre maggiore potenza di calcolo, questa visione open source del primo Web aprì la strada alla diffusione massiccia della rete e all’espansione del digitale fino a coinvolgere settori e professionali fino ad allora non toccati (ad esempio i giornali) e a crearne di nuovi (provider, e-commerce, etc.). Da questa libertà nascono anche le piattaforme che oggi utilizziamo.

🚩 Il secondo momento, scelto fra molti altri, è il 17 maggio 2018, quando, in seguito allo scoppio dello scandalo di Cambridge Analytica, per la prima volta l’opinione pubblica occidentale fu messa di fronte al valore d’uso della mole di dati immagazzinata dalle piattaforme digitali.

Tra questi due momenti si disegna una sorta di parabola dell’informazione: da libera e accessibile, incanalata in un nuovo potente mezzo, una macchina capace di metterla in circolo velocemente e coprendo qualsiasi distanza, a proprietaria, un’informazione che sfugge dalle mani di chi la produce e si concentra in nuove forme di potere. Questa parabola va di pari passo con lo sviluppo di strumenti tecnici capaci di estrarre sempre maggiore valore dalle attività spontanee degli utenti online. Pertanto diversə autricə hanno incluso tali attività nella categoria del lavoro.

 

I. Hope Labor, Microtasking e Hyperemployment

In un articolo del 2013, Kathleen Kuehn e Thomas F. Corrigan osservavano che:

Con la sua capacità di collaborazione volontaria su larga scala, il social web ha un potenziale promettente e progressivo in quanto facilita contemporaneamente l’espansione e l’intensificazione dell’accumulazione di capitale.

Ecco alcune delle prospettive che si propongono di analizzare i meccanismi alla base di questa accumulazione, e in particolare i processi che spingono gli utenti alla produzione spontanea di contenuti digitali (UGC).

L’Hope Labor, teorizzato da Kuehn e Corrigan si configura come un lavoro a credito, ossia un “lavoro non retribuito o sotto-compensato svolto nel presente, spesso per acquisite esperienza o visibilità, nella speranza che possano seguire opportunità di lavoro future”.

Le ideologie neoliberiste normalizzano la speranza, considerando il lavoro digitale gratuito o quasi come un investimento che ripaga le persone in base al merito. Questo nonostante, notano l’autore e l’autrice, abbia un impatto deleterio sulle prospettive di occupazione nei settori toccati.

Sebbene sia stato teorizzato pensando esplicitamente al contesto digitale, forme di hope labor esistevano molto prima del 1991. Un esempio è quello descritto in dettaglio da Max Weber come “la configurazione della scienza come professione nel senso materiale della parola”. Nel sistema accademico della Germania primonovecentesca, era la regola che i giovani docenti lavorassero gratuitamente nella speranza di ottenere un giorno la cattedra. In questo senso, per Weber, l’ambiente accademico è essenzialmente plutocratico, accessibile solo a chi ha i mezzi economici per sostenersi alcuni anni senza guadagnare.

Da forme di lavoro predigitali nasce anche il microtasking, che trasporta alti livelli di parcellizzazione nel lavoro immateriale. Questa modalità è particolarmente adatta al digitale perché permette di processare grandi quantità di dati con una notevole variabilità. Un esempio classico di microtasking è la produzione di testi da parte di lavoratori non qualificati, materiali che vengono poi analizzati nel “training” dei sistemi di machine learning; o ancora la produzione di mappe o l’analisi di contenuti audiovisivi, per il machine learning o finalizzate alla copilazione di grosse banche dati.

Esistono piattaforme con il preciso scopo di mettere in contatto gli enti, di solito tech companies, con i “volontari”. Trattandosi di compiti molto ridotti rispetto al progetto complessivo, c’è un gap tra il valore percepito dai partecipanti, che sono disposti a contribuire per un compenso bassissimo o nullo, e invece il valore delle banche dati che risultano dalla sintesi di migliaia di microcontributi.

Un altro sistema che intensifica l’accumulazione di capitale è l’Hyperemployment. Il curatore del volume Hyperemployment. Post-work, Online Labour and Automation, il critico Domenico Quaranta, riassume uno dei principali temi del libro, il fatto che:

il social networking, l’utilizzo intensivo dei dispositivi di comunicazione, sia lavoro anche se è difficile vederlo come tale, perché estrae valore dai nostri dati, dal nostro tempo e dal nostro coinvolgimento.

L’idea dell’hyperemployment si configura fin dall’inizio come una critica nei confronti di una disparità che, come nel caso del microtasking, è innanzitutto dovuta a un gap percettivo. Con un passo ulteriore, la quantificazione dell’esperienza umana (digitale e non solo) e la produzione di valore a partire dall’informazione ceduta, non avviene solo sotto forma di volontariato, ma di un contributo “trasparente”, continuo, dato allo stesso modo sia nel tempo del lavoro sia nel tempo libero, attraverso gli strumenti digitali che gli utenti percepiscono in relazione allo svago e all’intrattenimento. Nel nostro presente, il personale “non è solo politico, ma economico”.

II. Asimmetria

I concetti di hope labor, microtasking e hyperemployment si sviluppano a partire dalla presa in esame di un tipo di merce immateriale con caratteristiche proprie: l’informazione.

L’informazione ricavata dalle piattaforme a partire dall’attività dell’utente è più ingente di quanto tendiamo pensare. Questo perché sotto la punta dell’iceberg del dato volontariamente ceduto nella forma di lavoro non retribuito, c’è la mole del metadato estratto dall’attività stessa di cedere informazioni. I metadati (l’orario in cui l’utente si connettere, la posizione, i comportamenti frequenti, per citarne alcuni) servono da un lato a collocare l’utente all’interno di un pattern di previsione dei suoi comportamenti futuri, e dall’altro ad affinare la definizione di questi pattern con grandi quantità di dati (come si diceva sopra riguardo al machine learning).

Questa concentrazione di informazione e la sua utilità come strumento predittivo producono nuovi sistemi di potere. Secondo Shoshana Zuboff, il risultato è lo sviluppo di una nuova forma di capitalismo, che lei chiama capitalismo della sorveglianza. Qui:

I capitalisti della sorveglianza sanno tutto di noi, mentre per noi è impossibile sapere quello che fanno. Accumulano un’infinità di nuove conoscenze da noi, ma non per noi. Predicono il nostro futuro perché qualcun altro ci guadagni, ma non per noi. Finché il capitalismo della sorveglianza e il suo mercato dei comportamenti futuri potranno prosperare, la proprietà dei nuovi mezzi di modifica dei comportamenti eclisserà i mezzi di produzione come fonte della ricchezza e del potere capitalista nel Ventunesimo secolo.

Sulla stessa direttrice, un passo ulteriore lo fa McKenzie Wark, che sostiene che questi nuovi sistemi di potere producano nuove definizioni di classe in senso marxista sulla base dell’asimmetria dell’informazione. Da un lato, la classe dominante, che Wark chiama “classe vettoriale”, è costituita dai proprietari dei mezzi di produzione (ed estrazione) dell’informazione: le piattaforme online. Allo stesso tempo, il Vettore è anche in grado di mettere a frutto l’informazione in termini di capitale, disponendo dell’infrastruttura necessaria a gestire indirettamente la produzione e la circolazione delle merci. Il capitale, in questo caso, sarebbe il sottoprodotto del mercato dell’informazione, e la nuova classe dominante sarebbe in grado di estrarlo vendendo alle imprese capitaliste il tempo e l’attenzione dei singoli utenti attraverso la pubblicità personalizzata. Per Wark il risultato non sarebbe una nuova forma di capitalismo, ma qualcosa di completamente diverso.

È interessante notare che nella definizione di “classe vettoriale” è parzialmente annullato quel binomio tra macchina di azione e macchina di controllo a cui si faceva riferimento, poiché il vettore dell’informazione non si limita a manipolare dati astratti, ma collabora con il capitale per convertirli in informazione utile a ottimizzare o automatizzare la circolazione dei beni concreti. Possiede, in altra parole, i mezzi per creare bisogni e quelli per soddifare la domanda.

All’estremo opposto troviamo quella che Wark chiama “classe hacker”, ossia tutti i produttori di contenuti digitali, testuali, audiovisivi, porzioni di codice eccetera. In quanto hacker:

Produciamo nuovi concetti, nuove percezioni, nuove sensazioni, hackerate da dati grezzi. […] Sia che arriviamo a rappresentarci come ricercatori o autori, artisti o biologi, chimici o musicisti, filosofi o programmatori, ognuna di queste soggettività non è che un frammento di una classe che sta ancora diventando, a poco a poco, consapevole di se stessa come tale.

Se vogliamo concentrarci sul ruolo pedagogico dell’odierno ambiente digitale, o perlomeno sul suo potere di riaffermazione dei sistemi di prassi e valori condivisi, gli hacker sono al tempo stesso produttori e riproduttori. Produttori, s’intende, di contenuti immateriali che appartengono ad altri.

III. Lavoro e tempo libero

L’estrazione di valore dall’utente delle piattaforme online, come si è detto, non avviene attraverso un mercato dei contenuti UGC (che anzi, tendono a essere distribuiti gratuitamente anche laddove in epoca predigitale esisteva un mercato, com’è il caso del giornalismo). Questa conversione si attua attraverso il “mercato dei comportamenti futuri”, ossia quello della pubblicità personalizzata e pervasiva.

Un punto che lega l’hyperemployment all’idea di “mercato dei comportamenti futuri”, è la progressiva erosione della differenza tra tempo dedicato al lavoro e tempo libero.

Adam Greenfield fa riferimento a una precisa sensazione condivisa quando scrive: “In effetti, siamo tutti quanti a corto di tempo”. Esiste, nota Greenfield, una vistosa contraddizione tra la “società del tempo libero” preconizzata da tecnofili ed economisti del secolo scorso in rapporto all’automazione delle attività produttive, e il mondo in cui viviamo, dove l’attenzione e il tempo degli individui sembrano essere alcuni tra i beni più ricercati (basti vedere i prezzi degli spazi pubblicitari). La “disoccupazione tecnologica” che John Maynard Keynes immaginava correlata all’automazione, e che rientra nei paesaggi futuri tratteggiati dall’accelerazionismo, è nella pratica molto distante, se non, suggerisce Greenfield, del tutto utopistica.

Da un lato, come faceva notare la critica dell’hyperemployment, siamo coinvolti negli stessi meccanismi di produzione di dati e metadati tanto nel tempo del lavoro quanto nel tempo libero, passando spesso per le medesime macchine e i medesimi ambienti software. Client di posta e social network, ad esempio, ci tengono costantemente connessə ad ambiti personali, sociali, famigliari, professionali, a registri formali e informali, a ricoprire ruoli pubblici e privati su uno stesso “palco scenico” virtuale, un ambiente utopico/eterotopico necessario, in cui non è più possibile isolare il lavoro salariato dall’intrattenimento.

In conclusione

Ricapitolando, autori e autrici hanno evidenziato aspetti diversi nel modo in cui la rete ha cambiato gli equilibri tra le coppie macchina di controllo e macchina di azione, consumo individuale e consumo produttivo, lavoro e tempo libero, arrivando perfino a chiedersi se, alla luce di questi cambiamenti, siano ancora saldi i pilastri costitutivi del sistema capitalista in quanto tale. Oggi, pochi soggetti possiedono l’informazione e i canali di estrazione e conversione delle informazioni in capitale; la natura di questi processi, e i rapporti di potere che questi soggetti esercitano, sarebbero forse sufficienti a ridisegnare l’immagine della società.

Quello che possiamo dire con certezza è che la rete modifica i termini della sincronizzazione del lavoro, risolvendo alcuni problemi legati allo spostamento fisico dei lavoratori, e concentrando tendenzialmente nelle mani di compagnie multinazionali la produzione e la gestione logistica del prodotto materiale e immateriale (web server, siti di produzione delocalizzati, canali di spedizione).

L’ascesa del ruolo dell’informazione e la sua parabola da libera e accessibile (Berners-Lee) a solo superficialmente “condivisibile” , sono dipesi dallo sviluppo di macchine e dalla capacità della nostra società di introiettarle come elementi perlopiù disgiunti dall’ambito del lavoro.

La macchina morta di cui parlava Marx è essenzialmente uno strumento per il lavoro. Anche nei suoi momenti di maggior centralità, come la metafora politica di cui la riveste il film Metropolis di Fritz Lang, ciò di cui gli esseri umani nutrono la macchina è il vivo lavoro: tempo, attenzione, lavoro fisico o intellettuale, per rinsaldare giorno dopo giorno il rapporto di interdipendenza tra la società, la macchina e chi la possiede.

Una frase come: “Una macchina che non serve al lavoro è inutile” oggi suona paradossale, non perché sia falsa o perché sia desueta la concezione di macchina che presuppone, ma forse invece perché è cambiata la nostra percezione di ciò che è e ciò che non è lavoro.


Bibliografia

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  • Caronia Antonio (2010) Virtuale, Mimesis
  • Di Vita Federico (2021), Hyper-employment, dalla rivoluzione delle nostre vite a una prospettiva post-capitalistica? su ElleDecor, 16 marzo 2021, https://www.elledecor.com/it/people/a35841011/hyper-employment-libro-nero-editions-domenico-quaranta/
  • Goffman Erving (1959) La vita quotidiana come rappresentazione. Tr. it a cura di M. Ciacci, Il Mulino, Bologna
  • Greenfield Adam (2017), Tecnologie radicali. Il progetto della vita quotidiana, Einaudi
  • Kuehn Kathleen, Corrigan Thomas F. (2013), Hope Labor: The Role of Employment Prospects in Online Social Production, su “The Political Economy of Communication”, vol. 1 n. 1. https://polecom.org/index.php/polecom/article/view/9/64
  • Turing Alan (1948), Macchine intelligenti, in “Intelligenza meccanica”, Bollati Boringhieri, 1994
  • Wark McKenzie (2004), A Hacker Manifesto, Harvard University Press
  • Wark McKenzie (2021), Il Capitale è morto. Il peggio deve ancora venire, Nero
  • Weber Max (1917), La scienza come professione, in “Il lavoro intellettuale come professione”, ed. it. a cura di M. Cacciari, Mondadori, 2006, pp. 5-47
  • Zuboff Shoshana (2019), Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss

Credits

Questa ricerca costituisce una parte di Online Labour: forme e problemi del mercato del lavoro connesso compilata da Mycena alla fine del Corso di perfezionamento in Teoria Critica della Società, Università degli Studi di Milano Bicocca, giugno 2021.

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