Questo post parla di un libro non tradotto in italiano (e difficilmente reperibile anche in inglese a causa della mafia delle pubblicazioni accademiche). Tutte le citazioni sono tradotte da noi e riportano dove necessario i termini originali. Abbiamo scelto di scrivere lɜ animali, e non gli animali, per mantenere nella nostra prospettiva antispecista sempre presente la componente di sfruttamento sessuale.
In un precedente articolo sul giardino abbiamo iniziato a ragionare sul concetto di agentività, intesa come la capacità di agire, di produrre degli effetti a cui diamo un valore – e che normalmente attribuiamo solo agli esseri umani. La qualità che, nel caso qualcunə ci tiri un sasso, ci fa dire che “quella persona ci ha tirato un sasso” più che “il sasso si è lasciato tirare”. Dopo aver allungato lo sguardo agli agenti non umani vegetali, facciamo un passo indietro verso quei corpi cui più facilmente attribuiamo un’individualità: quelli dellɜ animali non umanɜ.
Lo facciamo attraverso il testo Animals and Capital (Animali e Capitale) di Dinesh Wadiwel, con l’obiettivo di articolare una serie – certamente non esaustiva – di conclusioni a cui ci porta il riconoscimento dell’agentività animale non-umana. Conclusioni specificamente politiche e materialiste, grazie all’approccio marxista proprio di Wadiwel. Come il filosofo di Treviri fece ai suoi tempi di fronte alle sofferenze della classe lavoratrice delle prime industrie tedesche, così Wadiwel, focalizzando lo sguardo sull’orrore della morte e sofferenza industrializzata nell’odierna industria zootecnica, non cerca tanto di smuoverci moralmente quanto di capire il funzionamento di questo meccanismo e di criticarlo.
La sua analisi parte da una semplice domanda: in che modo lɜ animali non umanɜ rappresentano un valore per l’economica capitalista?1
Osservando la produzione di cibo a base animale, vediamo come non siano solo i processi produttivi a produrre il valore economico dellɜ animali non umanɜ. Wadiwel afferma (utilizzando “animali” in modo equivalente ad “animali non umanɜ”):
Lɜ animali inclusɜ nella produzione di cibo appaiono in almeno tre forme di valore sotto il capitalismo. Per prima cosa, la maggior parte dellɜ animali sono destinatɜ alla trasformazione in merci di consumo: saranno resɜ mortɜ [made dead] per diventare il cibo che gli esseri umani consumano. Poi, lɜ animali sono materie prime che circolano nelle economie: vengono lavoratɜ [worked upon] nelle linee di produzione in modo da essere trasformatɜ in prodotti. E infine, lɜ animali lavorano [labour] quando il loro posizionamento nella produzione necessita che producano valore. Nel caso della produzione di cibo, questɜ animali lavorano su loro stessɜ attraverso il lavoro metabolico [metabolic labour] per diventare merci di consumo, o per produrre prodotti alimentari a base animale come latte o uova.
L’affermazione più sorprendente è quindi quella che vede lɜ animali non umanɜ come lavoratricɜ, che «agiscono nei processi produttivi in modo che venga prodotto il valore». Questo spiazza la nostra visione di eccezionalismo umano, spesso non solo riprodotta ma fondamentale alle politiche socialiste2. Un cambio di prospettiva con cui abbiamo familiarità nei campi della critica alla definizione di specie o all’antropocentrismo, ma che viene qui portato avanti sulla base di considerazioni materiali legate all’accrescimento della biomassa, al mantenersi in vita durante gli spostamenti e al lavoro riproduttivo durante la gestazione.
Ma anche qui vogliamo focalizzarci sul seguire le conseguenze per l’economia politica di questa affermazione. L’articolazione particolare della vita animale non umana nel capitalismo, cioè i modi in cui essa produce valore, porta necessariamente a dire che lɜ animali non umanɜ sono «una distinta classe economica», allo stesso livello della borghesia e del proletariato – e, a seconda della nostra analisi più o meno post-marxista, delle donne, delle persone razzializzate, delle minoranze sessuali e di genere…
Riconoscere a un gruppo lo status di classe in senso marxista è un gesto che, come ci è capitato di dire, è pregno di significato, mai “oggettivo”, e di cui ci interessa valutare le implicazioni politiche. Partendo da quelle più facilmente condivisibili, Wadiwel afferma che riconoscendoci nelle soggettività che più di ogni altra vivono la sussuzione reale da parte del capitale («la vita di unə animale è stata completamente inglobata dal capitalismo così che sembrerebbe che ogni momento della sua vita sia potenzialmente produttore di valore»), possiamo mettere a fuoco il meccanismo che produce così tanta morte e sofferenza, umana e non:
Invece che immaginare, come moltɜ sembrano fare, che la crescita nell’utilizzazione umana dellɜ animalɜ abbia la sua causa in un desiderio senza fine da parte dellɜ consumatorɜ umanɜ per cibi a base animale, questa analisi al contrario ci permette di comprendere che ciò che ha guidato l’enorme cambiamento in come gli umani usano lɜ animali è la ricerca del plus-valore, non semplicemente estratto dallɜ lavoratorɜ umanɜ che prendono parte all’agricoltura animale e le sue catene di valore associate, ma anche, e forse principalmente, nel valore distinto che lɜ animali producono quando sono dispiegatɜ in questi circuiti di produzione.
Altre implicazioni della realtà di classe delle vite animali non umane sono però più difficili da considerare. Non solo lɜ animali non umanɜ hanno un posto specifico all’interno del capitalismo, ma la loro lotta di liberazione non è necessariamente coerente con quella delle altre classi. Esiste un’ostilità strutturale (nel senso di derivante dalla struttura economica) tra la lotta di liberazione dellɜ animali non umanɜ e del proletariato. La riproduzione sociale della forza lavoro umana è, oggi più che mai, dipendente dallo sfruttamento dei corpi non umani, dalla produzione di morte e cibo su scala industriale.
L’ottica rivoluzionaria socialista, la riappropriazione dei mezzi di produzione, è anche quindi riappropriazione dei mezzi per lo sfruttamento del lavoro animale non-umano: la creazione di mattatoi socialisti dove lɜ proletariɜ hanno la proprietà dei mezzi di produzione, ma dove lɜ animali non umanɜ sono comunque uccisɜ.3
Il punto è che questa ostilità non è risolvibile semplicemente, tramite una teoria abbastanza particolareggiata o complessa che crei un monismo politico (in fondo siamo tuttɜ parte del vivente!). La nostra aggressione nei confronti dei non umanɜ è materiale e inscritta nei nostri corpi, nella forma delle ferite che ci provochiamo a vicenda e dei corpi che costruiamo consumando carne e prodotti animali. Non possiamo quindi «immaginare un impegno politico che non si scaldi, [che sembri] rifiutare il conflitto profondo, la rabbia e la disillusione, e [che tratti] le forti opposizioni come potenzialmente ‘non etiche’. La violenza, la disuguaglianza, l’oppressione, l’esclusione, l’alienazione, il colonialismo, l’esproprio e lo sfruttamento sono tutti tipi di relazioni politiche che invitano a risposte immediate, opposizionali e a volte scortesi, particolarmente da parte di chi subisce i danni di queste relazioni.»
Farci carico di queste opposizioni fisiche, violente e non risolvibili teoricamente ci insegna però una cosa importante: dobbiamo cambiare il sistema in cui viviamo.
[… L]’antagonismo tra le parti non può essere risolto senza la distruzione di un mondo, visto che la parte esclusa esiste come negazione di chi è inclusɜ; cioè, i termini dell’inclusione dipendono sull’esclusione assoluta di questo Altro.
Questo pensiero ci libera dal legame con l’attuale sistema, dal dover giustificare il nostro desiderio di cambiare tutto. Un desiderio di distruzione creatrice, di azione concreta, immediata e materiale, che possiamo agire in solidarietà con tuttɜ lɜ esclusɜ, umanɜ e non-umanɜ, anche se ognunɜ in modo diverso e spesso in conflitto. Un doppio movimento di creazione di interdipendenza e liberazione, di limitazione della nostra azione ma anche di creazione di alternative radicali, che può nascere solo nel momento in cui riconosciamo l’agentività e la voce non-umana.
Le condizioni delle vite non-umane ci rendono necessario riarrangiare fondamentalmente il mondo per come lo conosciamo, così che non sia necessario che lɜ animali soffrano e muoiano per noi. In questo modo questa domanda [di cessazione della sofferenza] funziona come un minaccia ‘affermativa della vita’ al nostro modo di vivere. È antagonista. […]
Il nostro mondo sarebbe irriconoscibile senza tuttɜ lɜ animali che sono statɜ volontariamente o meno co-creatricɜ, lavoratricɜ, nel nostro passato; e questo simultaneamente ci offre un modo di pensare a quanto il nostro mondo cambierebbe se coltivassimo relazioni differenti con lɜ animali nei mondi futuri che creiamo.
Alcune briciole teoriche…
Aggiungiamo quattro brevi punti che, tra i tanti affrontati dal libro, ci sono rimasti impressi ma che non sapevamo come inserire nel testo.
Uno
Un motivo per cui la liberazione dellɜ non-umanɜ (riprendendo il titolo del fondamentale saggio di Peter Singer) è così trasformativa è che il lavoro non-umano è fondamentale nel capitalismo. Tanto quanto il lavoro schiavo o quello casalingo non pagato, anche il lavoro metabolico dellɜ lavoratricɜ non-umanɜ è parte necessaria dei meccanismi che rendono possibile la produzione, permettendo la riproduzione della forza lavoro tramite cibi cui attribuiamo valore sociale (e più densi energeticamente). Come dice Paul Preciado, il sistema petro-sesso-razziale capitalista è perfettamente rappresentato dall’hamburgher.
Due
Le modalità dello sfruttamento dellɜ animali non-umanɜ rende esplicito il meccanismo di creazione del «soggetto lavorante-su-sè-stesso» («self-labouring subject»), in cui
«lɜ animali sono costrettɜ [dal lavoro umano] (cioè dalla dominazione) a obbedire ai regimi metabolici imposti su di loro in modo da realizzare loro stessɜ come prodotto da vendere. Sottolineo come la resistenza animale sia un aspetto implicito di questo processo, visto che gli umani lavorano solo perché lɜ animali non offrono questo lavoro volontariamente.»
Come ci insegnano Foucault e James Scott, la resistenza che emerge in qualsiasi relazione di portere/dominio non è solo qualcosa di positivo e non è necessariamente liberatoria. Non per una falsa coscienza o perché mal direzionata, ma perché può essere completamente sussunta dal sistema fino a diventarne parte integrante (o addirittura essere parte fondamentale del modo in cui un sistema economico evolve, come teorizzava l’operaismo): se lɜ animali (umanɜ e non) si lasciassero semplicemente morire, il capitalismo non potrebbe sfruttarlɜ – se le vacche non scappassero dai taser, qualche lavoratore umano dovrebbe spingerle verso il mattatoio. La resistenza è qualcosa di politico, ma «che non ha bisogno di essere situata in una capacità o valore innati». La resistenza è, esiste in quanto forza materiale, umana e non-umana, vivente e non-vivente; ma non è di per sé liberatoria o meno, etica o meno, valida o meno. Di fronte a essa (e di fronte alla nostra stessa resistenza a cambiare i rapporti economici e sociali) possiamo solo situarci come alleatɜ o indifferentɜ. Pensiamoci, la prossima volta che sentiamo la necessità di giudicare la resistenza di una persona, di un popolo, di unə animale o di una montagna.
Tre
Nonostante le opposizioni strutturali che colorano la relazione umani/non umanɜ, esistono punti di unione e lotta comune, anche se non trasformativi. Un esempio analizzato da Wadiwel è il trasporto dellɜ animali non umanɜ, dove le condizioni di lavoro umane sempre più precarie (aumento dei turni, diminuzione del tempo per tratta, aumento dei carichi, diminuzione della paga, assenza di diritti di sciopero…) portano direttamente al peggioramento delle condizioni dellɜ non-umanɜ trasportatɜ. Una lotta sindacale potrebbe quindi essere anche una lotta votata al miglioramento delle condizioni non-umane durante il trasporto, e lo stesso sarebbero le lotte per le condizioni di lavoro in tutta la filiera della produzione di cibo animale. Ma di nuovo, nonostante queste coincidenze e le possibilità politiche contingenti, così facendo non mettiamo in discussione lo sfruttamento dellɜ animali non-umanɜ.
Quattro
Il punto più difficile e non risolvibile (almeno per la soggettività che la modernità ha plasmato) è quello della presa di parola. In quanto antispecistɜ, dobbiamo parlare per esseri che non possono parlare, almeno non in quello che normalmente definiamo linguaggio. Alla luce di quanto detto sopra, non c’è nessuna ragione di pensare che lɜ animali non-umanɜ non siano soggetti politici; ma allo stesso tempo, non possiamo neanche pensare che essɜ facciano richieste che noi possiamo semplicemente accogliere. Ecco che anche il modo in cui Wadiwel risolve il sempre annoso problema della capacità di parlare dellɜ minorizzatɜ o subalternɜ – ovvero tramite il valore espressivo della resistenza non-umana allo sfruttamento umano – non ci sembra davvero soddisfacente. Ci pone sicuramente la necessità di non fare politiche volte a migliorare quello che noi chiamiamo “benessere animale”, ma distruggere direttamente i macchinari e i sistemi che creano morte e sofferenza, e verso cui lɜ non-umane oppongono resistenza. Ma penso che, proprio in solidarietà con la situazione orribile che vivono lɜ animali non umanɜ nelle industrie che ci sfamano, dovremmo rimanere nella difficoltà e nel disagio che ci deve suscitare parlare per altrɜ. Dobbiamo creare lo spazio dove quella difficoltà, quella incomunicabilità oggi strutturale (al punto che moltɜ la leggono come biologica), possa risolversi in mille forme di con-vivenza e con-morte. Ma risolvere il disagio che sentiamo e trovare quella connessione con noi stessɜ e con le altre cose che esistono, sarà qualcosa che guadagneremo con la lotta.
Note
- Valore, è bene notare, in senso marxista, ovvero forma di valore, cioè il possedere un valore di scambio sociale, diverso da quello d’uso concreto. Citando dal Capitale, Libro I, Cap. 1 sez. 3:
Le merci vengono al mondo in forma di valori di uso, o corpi di merci, come ferro, tela, grano, ecc. Questa è la loro forma naturale casalinga. Tuttavia esse sono merci soltanto perché sono due cose in una: oggetti di uso e simultaneamente depositari di valore. Si presentano come merci, ovvero posseggono la forma di merci – e quindi possono entrare in circolazione– soltanto in quanto posseggono una doppia forma: la forma naturale o fisica e la forma di valore. [↩]
- Ad esempio per Marx solo gli esseri umani possono fare lavoro produttivo, come analizzato in profondità da Wadiwel. [↩]
- Questa situazione è in parte simile a quella che intercorre tra il proletariato maschio, bianco ed eterosessuale e le sue forme di riproduzione patriarcale, e le donne, le persone non etero e cis e le persone razzializzate, con la differenza che i proletari non usano i corpi umani in un modo tanto diretto quanto il consumo della loro carne. [↩]
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