Il 10% più ricco inquina come il 90% più povero

Elementi di Ecologia Politica Pt. 1: Le disuguaglianze economiche sono disuguaglianze ecologiche

27/12/2023
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Con quest’articolo inauguriamo una nuova aiuola nel giardino, quella dell’ecologia politica. Un tema che ci è molto caro e di cui leggiamo e pensiamo da tempo (lo trovi in tutto quello che abbiamo scritto in tema di ambiente e solarpunk), ma di cui non è facile parlare. Avremo tempo, seguendo i testi che vogliamo proporre man mano, di capire perché sia così difficile parlare insieme di ecologia e politica, ma un’idea vogliamo già darla.

Non si tratta di politicizzare l’ecologia, di passare dal “giardinaggio” alla lotta ecologista (facendo il verso a un famoso slogan); il punto dell’ecologia politica è invece che ogni progetto politico è sempre un progetto ecologico, una visione di come tutte le entità viventi e non viventi debbano relazionarsi tra loro. Se questa visione è spesso non espressa nel discorso politico, sta a noi cercarla ed esplicitarla. E se questo discorso è quello che ci sta portando al collasso ambientale, sta a noi combatterlo.


Disuguaglianze ed ecologia

Per iniziare ho scelto di affrontare un tema che è eminentemente politico, ma che come vedremo è anche fondamentalmente ecologico: la disuguaglianza.

La disuguaglianza si esprime in molti campi connessi tra loro, da quello istituzionale e sociale a quello psicologico e individuale (nota) – ma è vissuta soprattutto come un problema economico (nota) : la differenza tra chi ha molto e chi ha poco. Il pensiero politico, dal conservatorismo al progressismo, si misura costantemente con questa forma di disuguaglianza, sia che la giustifichi sia che la condanni. Anzi, si può dire che le disuguaglianze economiche, ben più che di lotte specifiche su che forma di organizzazione dovremmo adottare, siano diventate negli ultimi anni il terreno di lotta principale in cui proporre soluzioni radicali (lo testimoniano slogan come “we are the 99%” di Occupy, così come il lavoro enciclopedico Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty e il suo successo).

Quando però si discute di ecologia e/o ambientalismo, la disuguaglianza è presentata generalmente come un problema esterno al discorso: da un lato c’è l’ambientalismo, la necessità di ridurre l’inquinamento, e dall’altra le difficoltà economiche delle persone normali, che ben poco hanno a che farci. La disuguaglianza entra nel discorso solo in una forma molto specifica, di cui riporto qui un paio di esempi:

“L’Ue ha abbracciato l’agenda politica globalista, ultra-ambientalista e arcobaleno […] Pur sapendo che il nostro continente contribuisce solo in minima parte alle emissioni inquinanti, invece di assicurarsi che giganti quali Cina e India rispettino le nostre stesse regole (perché il mercato può essere libero se è anche equo), Bruxelles chiede alle nostre aziende di adeguarsi ai vincoli sempre più stringenti del “Green Deal”.

Giorgia Meloni, 2022

“Se l’Europa, improvvisamente, in una notte, fosse in grado di abbattere tutte le sue emissioni di CO2, avremmo abbattuto il 9% delle emissioni del Pianeta. Il 91% dell’intera partita non è in Europa, la vera partita è fuori dall’Europa, la si gioca in India e in Cina”

Lapo Pistelli, direttore Public affair di Eni, 2020

Insomma, gli ambientalisti vadano a guardarsi grafici come questo e la smettano di rompere i coglioni.

Probabilmente molt3 di noi hanno la risposta pronta, che può prendere la forma di un altro grafico.

Se è vero che la Cina produce una quantità di anidride carbonica equivalente più che doppia degli Stati Uniti, è anche vero che i due paesi hanno popolazioni molto diverse: ogni statunitense emette mediamente l’86% in più di unə cinese. Per fare un altro esempio, la persona media che vive nell’Unione Europea emette quasi tre volte quanto la persona media in India, nonostante un’emissione nazionale annua quasi uguale.

Avremo tempo di discutere perché è bene criticare questo concetto di “inquinamento”, e soprattutto perché misurarlo tramite le emissioni di CO2 o “l’impronta ecologica” non è una scelta così neutra come può sembrare. Potremmo anche includere la dimensione temporale delle emissioni totali dall’inizio dell’industrializzazione (che, solo come esercizio critico, ti invito a cercare). Questi dati rimangono comunque importanti per sfatare i tentativi di buttare la palla in tribuna quando si parla di ambiente. Anche qui però la disuguaglianza è trattata come un problema accessorio, un metro per indicare chi si dovrebbe occupare delle problematiche ambientali (non noi, tendenzialmente).

In entrambi i discorsi sulle emissioni passa sotto traccia, da un lato, l’idea nazionalista per cui ogni nazione è un’entità a sé, che ha responsabilità solo all’interno dei suoi confini e può e deve infischiarsene di cosa accade fuori di essi; dall’altro, l’idea liberista secondo cui partecipiamo tuttɜ all’economia nello stesso modo come soggetti liberi e individuali, e che tutte le differenze tra chi ha molto e chi ha poco siano solo accidenti rispetto alla “persona media” che ci rappresenta tuttɜ.

Apparentemente, combattere queste due idee ci porta fuori dal campo ecologista e dentro al campo politico dove di certo non mancano critiche più o meno strutturate tanto della nazione quanto dell’economia liberista. Ma come abbiamo detto la nostra ambizione nel parlare di ecologia politica è mostrare come ogni disegno politico sia anche un’ecologia. Esplicitare la componente ecologica delle disuguaglianze, quindi, è un metodo per arricchirne l’elaborazione, e persino per dare forma alle lotte contro di esse.


La distribuzione delle emissioni

Prendiamo una pubblicazione scientifica apparsa nel 2022 su Nature Sustainability a opera di Lucas Chancel, Global carbon inequality over 1990–2019 (“Disuguaglianza globale nelle emissioni di carbonio dal 1990 al 2019”). Il paper mira a ricostruire come sono distribuite le emissioni di CO2 nel mondo e come siano cambiate negli ultimi trent’anni ma, a differenza dei dati discussi poco sopra, le emissioni non vengono valutate partendo da gruppi precostituiti, come le nazioni e lɜ loro cittadinɜ mediɜ. Ribaltando questo tipo di approccio, l’articolo studia come le emissioni sono distribuite nella popolazione per definire dei gruppi con simili emissioni, e come e se quei gruppi si inseriscono nelle categorie economiche e politiche con cui abbiamo familiarità.

Un concetto necessario per comprendere la distribuzione delle emissioni merita una breve spiegazione per chi non ha praticità con la statistica. La statistica, nell’accezione in cui la uso qui, è un modo per descrivere sinteticamente grandi quantità di informazioni – quali le emissioni di ogni persona sul pianeta. Alcune delle grandezze usate per questa sintesi sono abbastanza ovvie (il valore medio, il valore massimo e il valore minimo) altre un po’ meno, ma sono estremamente importanti. Quella cruciale per comprendere lo studio è la differenza tra la percentuale di popolazione e la sua percentuale di emissioni. 

Per capire di cosa si tratta, facciamo un esempio: se prendessimo 100 persone e le ordinassimo in una lista in ordine di emissioni annue, potremmo prendere le 50 che emettono di meno, le 10 che emettono di più e le 40 “nel mezzo” e calcolare le emissioni di questi tre gruppi. Se tutte le persone emettessero la stessa quantità di CO2 questi valori non avrebbero significato, in quanto non ci sarebbe modo di definire chi emette di più e chi emette di meno; al contrario, qualunque differenza significativa nelle emissioni delle persone che abbiamo scelto ci salterebbe subito all’occhio.

Poniamo che le emissioni del nostro ipotetico gruppo siano distribuite secondo la distribuzione normale, ovvero in modo casuale, come i valori che si ottengono dai dadi da gioco. Ponendo la media delle emissioni pro capite a 6 tonnellate l’anno (il valore medio globale nel 2019) e i valori di emissione massima e minima a circa 9 e 2.5 rispettivamente, si ottengono questi risultati. Sul totale di 100 persone:

  • le 50 persone che emettono di meno rappresentano poco più del 40% del totale delle emissioni, con un’emissione media di 4.8 tonnellate;
  • le 40 persone nel mezzo rappresentano poco più del 45% del totale delle emissioni, con un’emissione media di 6,8 tonnellate;
  • le 10 persone che emettono di più rappresentano il 14% del totale delle emissioni, con un’emissione media di 8,5 tonnellate.
Grafico esemplificativo delle emissioni di 100 persone se distribuite con una distribuzione normale.
Dati dell’esempio calcolato da me.

Questa distribuzione è abbastanza equa, ovvero non presenta grandi differenze tra il numero di persone di un gruppo e la loro percentuale delle emissioni.

Se estendiamo questo approccio all’intera popolazione umana e sostituiamo i dati che ho ottenuto analiticamente coi dati effettivi calcolati da Chancel, ecco invece cosa otteniamo:

  • il 50% della popolazione che emette meno rappresenta l’11.5% delle emissioni totali, con un’emissione media di 1.4 tonnellate di CO2 l’anno;
  • il 40% della popolazione nel mezzo rappresenta il 40.5% delle emissioni totali, con un’emissione media di 6.1 tonnellate di CO2 l’anno;
  • il 10% della popolazione che emette di più rappresenta il 48% (!) delle emissioni totali, con un’emissione media di 29 tonnellate di CO2 l’anno.
Grafico delle emissioni della popolazione terrestre nel 2019.
Dati ottenuti da Chancel L., “Global carbon inequality over 1990–2019”.

Se consideriamo poi che l’1%, lo 0.1% e lo 0.01% della popolazione che emette di più contribuiscono al 16.9%, 7.1% e 3.9% rispettivamente, possiamo capire quanto diseguale sia questa distribuzione, ovvero quanta differenza ci sia tra il numero di persone che emettono di più e quanto contribuiscono alle emissioni totali. Nonostante più della metà della popolazione sia al di sopra del livello medio di 1.9 tonnellate l’anno necessario da qui al 2050 a limitare il riscaldamento globale a 1,5°C (nota), quasi metà delle emissioni globali sono date dal 10% della popolazione.


Questioni di classe

Cosa ci possono dire questi dati sulla disuguaglianza, e come possono offrire un’alternativa al paradigma nazionalista e liberista con cui viviamo il problema ambientale?

Partiamo dal tema nazionale. Su questo aspetto, cioè quanto contino le differenze tra stati rispetto alle differenze economiche nella loro popolazione, la risposta dell’articolo è molto netta: persino nell’ottica ristretta delle emissioni di anidride carbonica, la disuguaglianza economica tra stati – nonostante, come abbiamo visto, sia ancora molto grande – è oggi meno importante della disuguaglianza economica all’interno degli stati. Ovvero, la distribuzione fortemente top-heavy, dove una percentuale molto bassa di forti emettitori contribuisce in modo sproporzionato alle emissioni totali, non è più dovuta principalmente alla presenza di paesi che emettono molto più di altri (ovvero il nord globale insieme a Cina e India) o alle differenze tra i consumi pro capite medi tra diverse aree del mondo, bensì alla presenza di gruppi di persone che, indipendentemente dal paese in cui si trovano, possono emettere molto più di altri.

Disuguaglianze ecologiche: andamento della percentuale di disuguaglianza nelle emissioni data da disuguaglianze tra stati e data da disuguaglianze all'interno degli stati.
Grafico rielaborato da Chancel L., “Global carbon inequality over 1990–2019”.

Perché le disuguaglianze economiche sono importanti nella misura dell’inquinamento? Nonostante sia chiaro quanto sia diseguale la distribuzione delle emissioni di anidride carbonica e quanto questa disuguaglianza risulti principalmente dalle differenze tra classi, questo non ci indica come affrontare il problema. Continuando a descrivere i dati forniti da Chancel troviamo però due motivi per cui questa disuguaglianza è un punto fondamentale.

Un primo motivo è dato da una valutazione circa i volumi emessi dalle diverse classi di emissione. Il livello cui dovremmo portare immediatamente le nostre emissioni prima di azzerarle nel 2050 è di 1,9 tonnellate/anno (lo stesso vale considerando i percorsi di emissione ipotizzati entro il 2030 dagli accordi di Parigi). Se questo è un obiettivo ambizioso data la nostra attuale volontà politica (e spesso personale) di cambiare le nostre modalità di consumo, è anche chiaro che questo obiettivo non può essere raggiunto richiedendo lo stesso sforzo a tutte le persone.

Buona parte della popolazione mondiale è al di sotto o relativamente vicina al livello di emissioni richiesto, mentre una piccola parte è decisamente al di sopra e necessita di cambiare radicalmente il suo stile di vita. Anche tenendo conto delle differenze tra nazioni altamente industrializzate e non, qualsiasi politica che evita un approccio fortemente progressivo alla riduzione dei consumi, è non solo ingiusta ma inefficace, in quanto non tiene conto di un’ampia porzione di emissioni fortemente sopra la media ed evidentemente non necessaria.

Un secondo motivo per cui tenere conto di queste disuguaglianze è invece meno evidente, ed è strettamente legato alla narrazione liberista. Le persone nelle diverse classi di emissione non sono differenti solo rispetto a quanto emettono, ma anche rispetto a come emettono.

Innanzitutto, negli ultimi trent’anni il valore delle emissioni non è cambiato nello stesso modo per tutt3: nonostante le emissioni pro capite del 50% di persone che emettono di meno e dell’1% che emette di più siano entrambe aumentate del 26% dal 1990, il primo gruppo ha contribuito al 16% dell’aumento di emissioni complessivo, mentre il secondo ha contribuito al 23%. Se poi consideriamo che lo 0.1% ha visto aumentare le sue emissioni dell’80%, e che una grossa parte delle classi medio-basse dei paesi del nord globale ha diminuito le sue emissioni, in alcuni casi del 25%, vediamo subito come la situazione attuale è il risultato di un crescere della disuguaglianza che non dà nessun segno di rallentare. In altri termini, l’andamento dell’economia e delle emissioni ad essa legate non è “democratico”, non porta a un innalzamento complessivo dei consumi e delle emissioni, ma è fortemente trainato da chi ha accesso a maggiore ricchezza.

Crescita percentuale delle emissioni di diverse classi di emissione dal 1990 al 2019.
Grafico rielaborato da Chancel L., “Global carbon inequality over 1990–2019”.

Le emissioni legate alle diverse classi, in più, non differiscono solo rispetto a come variano nel tempo, ma anche rispetto a come vengono prodotte. Chancel mostra come una quota molto importante delle emissioni del 10% di persone che emettono di più, e una quota ancora più marcata per l’1%, sia data dagli investimenti, cioè “le scelte fatte dall3 possesor3 di capitale circa gli investimenti nel processo di produzione (ossia le emissioni legate alla costruzione di macchinari, fabbriche e così via)” [traduzione mia]. Mentre la quota di emissioni data da investimenti per il 90% più basso dell3 emettitor3 è al di sotto del 20%, l’1% più alto supera il 70% ed è in costante aumento dal 1990.

Ecco quindi che, anche nel “libero” campo economico, non possiamo fare finta che tutte le persone abbiano gli stessi mezzi, in quanto a grandi fasce della popolazione sono precluse certe forme di attività economica – in questo caso il poter scegliere l’organizzazione della produzione da cui pure dipendono. Una cosa che questi dati non possono raccontarci è quanto queste scelte di investimento, oltre a causare direttamente emissioni, si oppongano attivamente contro ai cambiamenti che potrebbero farci superare l’attuale lucrosa economia fossile.


La redistribuzione delle emissioni

Spero che trovi interessanti questi dati, che ti facciano incazzare per l’ingiustizia che testimoniano e che ti facciano sentire che ci sono un sacco di persone che possono lottare contro di essa.

Affrontare la dimensione ecologica della disuguaglianza rende più difficile accettarla perché sappiamo gli effetti di morte che causa a noi e ai nostri ecosistemi; e rende più facile combatterla perché ci dà la consapevolezza di avere una lotta in comune con tutte le persone con cui condividiamo l’atmosfera, molto più che con le persone con cui condividiamo una nazione o un mercato.

Oltre a questo, l’ecologia politica può aprirci nuovi spazi di lotta, liberandoci dalle divisioni economia/ecologia, ma anche accademia/attivismo, che segmentano il movimento ecologista. Per me l’ecologia politica ha avuto questo ruolo.

La prima volta che ho sentito parlare di queste cifre ero in un circolo Arci nella periferia est di Torino, un cimelio delle lotte operaie del secolo scorso. Era a un incontro intitolato “Manifesto per un’ecologia politica”, in cui Emanuele Leonardi parlava a un cerchio composto di: soliti casi umani da centro sociale, vecchietti che bevevano uno spritz prima della cena offerta dal circolo e vari contenitori di ecoansia che si definiscono attivist3 (qui ci siamo noi di CC). Prima di iniziare, Emanuele ha fatto passare di mano in mano dei fogli con stampati due grafici tratti dall’articolo di Chancel.

Spero quindi di averti fatto capire l’importanza di questi dati in modo simile a come l’ho capita a quell’incontro; di essere riuscitə a darti gli strumenti per dire delle cose diverse quando si parla di emissioni di CO2.

Una cosa più difficile spiegare, invece, è il senso di comunità e di scambio che ho provato quella sera. Non solo tra noi che stavamo lì ad ascoltare e a parlare, non solo tra le persone rappresentate dai dati sulla disuguaglianza delle emissioni (tutta l’umanità, nientemeno), ma tra diversi campi del sapere istituzionale e diverse lotte per la giustizia sociale.

La potenzialità di questo approccio sta infatti nell’unione di campi che ci permette di immaginare. Una dimensione istituzionale e scientifica che offre delle conoscenze e non nasconde i problemi, che sa vedere quanto di politico c’è in quello che dice. Una dimensione di movimento che sa leggere e condividere questi dati e che li sa usare per immaginare mondi, pratiche e politiche – e creare mobilitazione in quella direzione.

Non è facile pensare a questo tipo di cooperazione: le voci istituzionali dell’ecologia ci sembrano molto distaccate e quasi indifferenti (pensiamo all’IPCC e ai suoi constanti appelli inascoltati) e i movimenti ecologisti ci sembrano ancora deboli e poco efficaci. Una razionalità fredda e (letteralmente) calcolatrice da un lato, un utopismo impotente dall’altro. Ricerche come quella di Chancel danno però una piattaforma per pensare a una società diversa, che prende sul serio e mette in pratica, a tutti i livelli, la giustizia climatica, l’idea cioè che il cambiamento climatico non è un problema tecnico, ma in primo luogo politico, legato alle disuguaglianze e alle ingiustizie.

Non penso sia un caso se l’articolo di Chancel è alla base del “Climate Inequality Report 2023”, un documento accademico che tratta con la stessa serietà la quantità di CO2 emessa, la necessità di una tassazione progressiva, la giustizia sociale e le disuguaglianze di genere; né che quella sera Leonardi ci abbia parlato del collettivo di fabbrica GKN e della svolta che rappresenta per il movimento ecologista.

La convergenza tra le lotte è possibile e inizia anche da qui.


NOTE

1: Per una discussione di quest’ultimo aspetto consiglio il libro Le radici psicologiche della disuguaglianza di Chiara Volpato.

2: Per un’attenzione agli aspetti non economici della disuguaglianza economica vedi i lavori di Amartya Sen, Joseph E. Stiglitz e Jean-Paul Fitoussi.

3: Il valore è calcolato da Chancel sulla base degli scenari di emissione della sola CO2, dividendo il “budget” di anidride carbonica che ancora possiamo emettere per garantire con sufficiente sicurezza di rimanere al di sotto di 1,5°C per la proiezione della popolazione mondiale nel 2050.

Immagine di copertina a partire da Global Justice Now – NZ6_6599, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=132430541.

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