Voci dai Trans* Pride

Un mosaico di voci più o meno marginali che abbiamo scelto di portare con noi per raccontare (parzialmente) la rivolta, e tutti gli altri Pride

21/06/2024
Collettivo Contesto

LA PRIMA VOLTA FU RIVOLTA

Al Pride di Torino abbiamo pensato a questo. La rivolta che si evoca per dire che prima il Pride era una cosa cattiva, sporca, antisistema. Ma il riot suggerisce anche una spontaneità irriflessa, una violenza che risponde alla violenza repressiva. Di quel gesto rimane un’eredità con cui dobbiamo misurarci, per agire, ma anche per fare i conti con quella spinta all’insurrezione che oggi ci manca.

Cosa abbiamo perso? Cosa c’era alla radice della rivolta, i moti, e nelle vite di chi quella notte ha lanciato un sasso o una molotov? Quei sassi e quelle molotov sono arrivati allo Stonewall Inn dopo molti anni di lotte, di violenze, di soprusi, di assassinii. Sono passati da molte mani, e molte di queste mani erano di persone trans*, di prostitute, di persone razzializzate, di persone povere.

Noi (sì noi di Collettivo Contesto) viviamo lontanissimɜ da quella realtà, ed è anche per questo che a noi persone trans* bianche, borghesi e istruite è permesso prendere parola pubblicamente, scrivere un discorso, salire sul palco del Pride, anche senza doverci difendere come ha fatto Sylvia Rivera.

Col nostro privilegio, e i tempi che sono cambiati, potremmo finalmente lasciarci indietro il riot e quella parte di lotta. Ma noi non accettiamo di farlo, e lasciarci indietro insieme al riot tutte le persone che quella lotta non possono o non vogliono abbandonarla.

Per raccontare la rivolta, e tutti gli altri Pride trans*, abbiamo scelto alcune voci che ci parlano di noi, della nostra storia dentro e fuori dal movimento “LGBT”. Voci che sono sempre state presenti, dall’inizio fino a oggi, che hanno sempre parlato, ma che sono state in prima fila nella lotta e in ultima fila nelle politiche.

Non è delle loro parole che vogliamo riappropriarci, ma delle pratiche di resistenza collettiva che hanno reso possibile per loro esistere e prendere parola. Non abbiamo più il riot, ma abbiamo ancora bisogno di resistere e fare reti per noi stessɜ. Non siamo Sylvia e Masha, ma parliamo in nome delle nostre differenze.


La notte di Stonewall, fu per caso la settimana che Judy Garland si era suicidata. Si dice che i riot partirono a causa della morte di Judy Garland. È un mito. Eravamo tuttɜ parte di diverse lotte, me inclusə e molte altre persone transgender. Ma in queste lotte, nel movimento per i diritti civili, nel movimento contro la guerra, nel movimento delle donne, eravamo comunque dei reietti. L’unico motivo per cui tolleravano la comunità transgender in alcuni di questi movimenti era perché ci gettavamo nella mischia, eravamo sulle prime linee. Non ci facevamo mettere i piedi in testa da un cazzo di nessuno. Non avevamo niente da perdere. Voi avevate dei diritti. Noi non avevamo niente da perdere. Sarò la prima a pestare ogni organizzazione, a pestare i piedi di ogni politicə se mi serve, per ottenere i diritti per la mia comunità. […]

Quella notte, mi ricordo di aver cantato We Shall Overcome molte volte, in dimostrazioni diverse, sulle gradinate di Albany, quando abbiamo fatto la nostra prima marcia, quando ho parlato alle folle ad Albany. Mi ricordo di aver cantato ma non ho “superato” proprio un cazzo. Non sono nemmeno l’ultima ruota del carro. La mia comunità sta venendo trascinata con una corda intorno al collo dal paraurti del cazzo di carro che sta davanti. Liberazione gay ma nulla transgender!


Secondo me in Italia non esiste una comunità trans. In termini numerici sì, ,a in termini di segni, di simboli, di discorso culturale e politico non mi sembra. Penso che in Italia in questo momento storico si stanno formando dei micro-gruppi o delle micro-categorie a parte, non collocabili e riconducibili.

Il movimento LGBT+ in Italia, se di movimento si può ancora parlare, ha una sua peculiarità che non ha pari al mondo. Ha preso in blocco le modalità della politica istituzionale. Nonostante io stessa sia nella politica istituzionale, vengo emi sento ancora parte di un movimento. Credo che il movimento debba fare il movimento e la parte istituzionale debba fare la parete istituzionale. Il movimento deve servire come un pungolo, la spina nel fianco della politica istituzionale o partitica. In Italia se vai ad analizzare le forme e modalità, almeno del movimento mainstream, è uguale a quello dei partiti, della politica istituzionale che, tra parentesi, in questo momento storico è in crisi, bypassata e superata dalle destre. E loro si ostinano ancora su quella modalità che non produce nulla.


Volete veramente il Gay Power o state cercando un paio di risate o forse un po’ di emozioni? Non siamo proprio sicure di cosa voi vogliate davvero. Se volete la Gay Liberation allora dovete battervi per questo.

Non intendiamo domani o dopodomani, stiamo parlando di oggi. Non potremo mai vincere dicendo “aspettiamo un giorno migliore” o “non siamo ancora pront”. Se sei pront* a dire alle persone che vuoi essere liber*, allora sei pront* per combattere. E se non sei pront* allora stai zitt* e striscia di nuovo nel tuo armadio. Ma permettici di chiederti questo: puoi veramente vivere dentro un armadio? Noi no.


Negli anni ’70 le cose sono diventate politiche, e sono iniziate le campagne della National Gay Task Force e della Human Rights Campaign. Entrambi hanno detto che dovevamo focalizzarci sull’orientamento sessuale, e che dovevamo far capire a tutti che eravamo persone normali. E che l’unica cosa diversa che facciamo è nella camera da letto e che non dovrebbe interessare a nessuno. E quindi ci siamo sbarazzati di tutte le persone di genere queer. Ci siamo sbarazzati degli uomini con abiti da donna. Ci siamo sbarazzati delle lesbiche butch e non volevamo nessuno che non sembrasse normale. Abbiamo deciso che non si poteva usare la parola queer.


Quando ero unə ragazzə, ormai qualche anno fa, intrapresi un percorso di affermazione di genere per poter essere finalmente me stessə. […] Dovetti sborsare migliaia di euro che non avevo – vengo da una famiglia meravigliosamente modesta – per pagare una valutazione psichiatrica imposta, in quanto obbligatoria, e un avvocato. Fui costretta a rivelare dettagli della mia vita intima a perfetti sconosciuti, a interloquire con un pubblico ministero – io che non avevo mai preso neanche una multa – e a rivelare ad altri come era fatto il mio corpo, affinché potessero… valutarlo.

Ho vissuto per anni con un nome maschile sui documenti perché queste sono le tempistiche che l’Italia prevede. Non avrò indietro i miei soldi, ma soprattutto quegli anni, anni che avrei potuto e dovuto vivermi con la spensieratezza della gioventù e che invece se ne sono andati fra la preoccupazione di dover esibire un documento di riconoscimento che non mi corrispondeva nelle situazioni più svariate e il dover gestire due lavori per potermi pagare gli studi, ma anche gli psichiatri, gli psicologi e gli avvocati di cui sopra. […] Voglio fortemente che tutto questo – l’obbligo di passare attraverso step costosi, umilianti e svilenti – non accada più a nessunə giovane persona transgender e non binaria.


La persona non-med, che deve già fronteggiare una serie di problemi pratici nella vita quotidiana, si sente porre spesso la domanda “perché”. Perché sei non-med? Perché non fai la transizione medicalizzata? Io rispondo: perché mi stai chiedendo il perché? [Ho la sensazione che] tutto ciò che non è “naturalizzato” fa sì che l’altra persona pensi di poter chiedere il perché. Oggi non si chiede più a una persona gay perché è gay oppure a una persona trans medicalizzata perché stia facendo il percorso. […]

Le persone non medicalizzate non hanno diritto neppure a documenti conformi al loro genere di elezione che spesso è il genere all’interno del quale vivono tutta la vita, relazioni professionali, amicali, familiari e sociali. [M]a questo non viene riconosciuto dal punto di vista anagrafico. Nel momento in cui io mi devo relazionare con chi fornisce dei servizi che dovrebbero essere forniti a tutti i cittadini, devo necessariamente occuparmi di questa questione. Questa diventa una cosa così pesante che spesso ci fa rinunciare anche ad andare al Pronto Soccorso.


La cosa che penso è che bisogna lottare su tutti i fronti, essere il più molteplici possibile.

La mia università popolare di lotta è stata il movimento NoTav e la cosa che ho imparato è che lavorare sugli immaginari è fondamentale, perché fino a quando non ti immagini un’alternativa…

Lo posso leggere anche in ambito queer: fino a che io non mi sono immaginata che potessi farla io una transizione, che potessi esistere veramente, che potessi dire alla persona che vive con me, a mia figlia, ai miei parenti, ai miei amici, alle mie amiche che io ero così, che finché non ho potuto immaginare che potevo vivere così non me lo sono permessa. E fino a quando non diamo alle persone la possibilità di immaginare un mondo diverso da questo che ci viene prospettato non ci può essere un mondo diverso. Per cui per me lavorare sugli immaginari è una delle lotte più importanti, quella appunto di creare nuove possibilità.


Nel discorso medico e psicologico dominanti il corpo trans è una colonia.

Il corpo trans sta all’eterosessualità normativa come Lesbos sta all’Europa: una frontiera le cui estensione e forma si perpetuano esclusivamente tramite la violenza. Tagliare qui, incollare là, togliere questi organi, sostituirli con altri.

Il corpo trans è la colonia.


Le immagini in copertina vengono dalla digital collection della New York Public Library: più info qui e qui

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