Siamo sicurз che il problema con i social media sia la libertà di espressione?

E non, per esempio, il fatto che sui social media la libertà di espressione diventa una merce di scambio da contrattare con imprese capitaliste sempre più potenti?

15/12/2022
CollettivoContesto

L’idea di questo articolo ci viene in buona parte dalla lettura di Libertà vigilata. La lotta per il controllo di Internet di David Kaye, un testo istituzionale e molto documentato che si concentra sul tema della libertà di espressione sui social media.

Come spiega Enrico Pedemonte nella prefazione, David Kaye è professore di Diritto alla UC Irvine School of Law, e dall’agosto 2014 al luglio 2020 è stato il relatore speciale dell’Onu per la promozione e la tutela della libertà di espressione. Un tema questo che ha avuto rilievo anche alla luce di casi come quello di Cambridge Analytica e dell’impatto delle piattaforme sulla vita pubblica in Kenya, Birmania e anche stati con una più lunga tradizione democratica.

Come racconta Pedemonte:

Per sei anni – mentre sul web prosperavano le fake news e si moltiplicavano i messaggi di odio – [Kaye] ha vigilato sui contenuti pubblicati da Facebook, Google/YouTube e Twitter, ha dialogato con i dirigenti di queste aziende, ha raccolto le loro testimonianze […]

In questo libro Kaye racconta la sua esperienza di frontiera, unica nel suo genere, e lo fa senza criminalizzare alcuno, senza giocare a guardie e ladri, senza dividere il mondo tra buoni e cattivi, cercando soluzioni a problemi nuovi, di cui nel 1996 [anno del Communication Decency Act n.d.aa.] non potevamo neanche immaginare l’esistenza e che oggi sembrano travolgere le nostre vite e mettere a rischio il tessuto sociale dei paesi democratici.

E dunque, ecco alcune riflessioni nate dall’esperienza e dall’analisi di Kaye.

copertina del libro di David Kaye: Libertà vigilata. La lotta per il controllo di Internet. Treccani

Facebook rovina la democrazia?

No. È molto più complesso di così. Come mette in luce la prefazione di Pedemonte, l’obiettivo di questa analisi come di tutte le analisi utili non è (o non dovrebbe essere) trovare buoni e cattivi, mitizzare o demonizzare.

Da un lato ci sono casi documentati in cui i social media permettono un discorso democratico dal basso e la formazione di gruppi di resistenza a governi totalitari. Dall’altro, sono moltissimi i casi di radicalizzazione, distorsione del discorso politico o amplificazione di discorsi d’odio (v.d. la minoranza Rohingya in Myanmar).

Inoltre, anche gli stati democratici, che sembrano talvolta inermi di fronte al potere delle piattaforme, partecipano a questi meccanismi opachi negoziando e facendo pressioni per rimuovere contenuti non in conflitto con policy o leggi. Un caso recente sono i Twitter Files resi pubblici da Elon Musk nel corso della sua disastrosa acquisizione. Più che dimostrare l’arbitrarietà delle decisioni prese circa la moderazione dei contenuti, essi testimoniano le continue richieste informali da parte di membri delle istituzioni pubbliche statunitensi per rimuovere contenuti degli utenti.

Un’ulteriore complicazione che Kaye incontra sta nel fatto che i dirigenti e i rappresentanti che intervista sono persone prese tra differenze di visioni, conflitti e gerarchie.

Di fronte a una realtà così complessa, i rischi sono da un lato quello di lasciare pericolosi vuoti legislativi che deleghino alle aziende la scelta dei contenuti da mantenere secondo le loro policy. Dall’altro lato,  norme eccessivamente stringenti porterebbero le aziende a rimuovere grandi quantità di contenuti leciti da uno spazio che ormai è fondamentale per la libertà di espressione.

Kaye propone di far partecipare la società civile, gruppi di interesse locali e minoranze particolari, ai processi di stesura delle policy aziendali sulla moderazione dei contenuti. Per fare questo sono fondamentali politiche di decentralizzazione decisionale, adozione di principi basati sui diritti umani, trasparenza circa le ragioni delle scelte, e la possibilità di rifarsi a una “giurisprudenza”, cioè a un corpus di casi liberamente accessibili.

Siamo sicurз che il problema con i social media sia la libertà di espressione?

Rispetto all’analisi di Kaye vogliamo fare due passi di lato, che equivalgono a mettere in discussione due false equivalenze su cui l’autore non si sofferma: quella tra agenti economici e agenti politici e quella tra social media e Internet.

Agenti economici ≠ agenti politici

Quando si parla di piattaforme, è importante ricordare che ognuna di queste è un’impresa nel mercato, votata a soddisfare gli investitori crescendo indefinitamente. Meta, per esempio, è un’azienda privata che dalla sua nascita nel 2004 a oggi ha guadagnato il potere di contrattare alla pari con le nazioni.

Questo potere è eminentemente economico, e deriva da un modello di impresa ben preciso che si basa sull’aumento dell’attività degli utenti e quindi degli introiti pubblicitari. Dal punto di vista degli investitori, la crescita degli introiti pubblicitari è il metro della salute dell’azienda, e dipende direttamente da quanto e con quanta precisione vengono posizionate le inserzioni pubblicitarie. Tanto più tempo gli utenti passano a scrollare, tante più inserzioni possono essere posizionate tra i contenuti che vedono. Al tempo stesso, mentre scrollano e interagiscono con i contenuti, producono dati e metadati che servono a posizionare le inserzioni sempre più efficacemente.

Per mantenere le persone sulla piattaforma serve che i contenuti siano interessanti (entertaining), ma anche immediati. La sintesi perfetta tra questi aspetti sono i reel, con la loro stimolazione continua (5-15 secondi) simile a una slot machine. Un altro fattore importante è la capacità di un contenuto di suscitare una reazione emotiva, come i famosi gattini (sì li guardiamo anche noi). Altri tipi di partecipazione emotiva sono quelle suscitate dai dibattiti sui cosiddetti “argomenti divisivi”, la polarizzazione delle discussioni e le notizie sensazionalistiche (anche fake).

Creare spazi di libera espressione, promuovere i loro effetti positivi, ostacolare la diffusione di discorsi d’odio e fake news, non rientrano necessariamente negli obiettivi delle piattaforme. In questo senso, i contenuti “problematici” dal punto di vista del discorso pubblico giocano a favore del modello di crescita, a parte nei casi limite dove finiscono per allontanare gli utenti, o peggio ancora gli inserzionisti (v.d. Adpocalypse).

Kaye vuole credere che il problema della moderazione dei contenuti si risolverà quando le piattaforme acconsentiranno a collaborare con la società civile per creare policy più etiche e prassi più trasparenti. Ma la volontà di partecipare a questi miglioramenti, condivisa da molte persone che lavorano nelle piattaforme, non corrisponde necessariamente agli interessi economici delle aziende.

Politicizzare i social media senza istituzionalizzarli

I social media sono un dato di fatto della società, ed è essenziale farli rientrare in un discorso più ampio sulla vita pubblica. La sensazione però è che abbiamo rinunciato del tutto a discutere politicamente l’esistenza dei social.

Il punto fondamentale è che discutere non significa lavorare per decidere se tenerli alle loro condizioni attuali o eliminarli del tutto (ammesso che possiamo farlo). Significa interrogarsi su cosa sono, cosa comportano, come funzionano, quanto rispecchiano i valori delle società in cui viviamo e di quelle in cui vorremmo vivere o vivremo in futuro. Discutere criticamente non significa legiferare contro un’azienda, un paese o un modello economico. Ebbene, quel primo passo che è comprendere il presente e chiederci se ci piace con le sue dinamiche, e se le vogliamo ancora in futuro, è un primo piccolo passo che non siamo ancora in grado di fare. E di farlo, soprattutto, al di fuori delle logiche polarizzanti nelle quali al pensiero “critico” segue sempre l’azione di forza, e un pensiero che invece nutre contraddizioni non vale la pena di essere intrapreso.

Ecco perché le proposte di Kaye sullo spazio e le funzioni dei social media in un mondo (almeno un po’) migliore, sono perlopiù irrealizzabili e francamente imbarazzanti. Il problema della risposta di Kaye è che il suo modo di rendere politiche queste imprese le rende al tempo stesso delle istituzioni de facto. Sembra accettare completamente il potere che hanno acquisito nelle società, e anzi sembra chiederci di dargliene ancora di più. Chiede loro cioè di essere etiche, di aiutare lo stato, di farsi garanti dei diritti fondamentali e di impegnarsi perfino a reprimere gli abusi. Tutto questo pur di garantire una specie molto problematica di libertà di espressione.

Kaye si pone di fronte a queste aziende non solo come attori fondamentali e consapevoli nel panorama del discorso pubblico di tutto il mondo, ma proprio come istituzioni su un terreno che prima non esisteva. Hanno preso la libertà di espressione garantita dalle dichiarazioni dei diritti umani e ce l’hanno rivenduta come un servizio.

Siamo sicurз che il problema con i social media sia la libertà di espressione?

06/04/2023

Social media ≠ Internet

Arrivare a capire, dal nostro punto di vista, che i social media sono problematici su più piani e che non li vorremmo nel futuro, non significa proporre di tornare ai fax, alle cartoline e alle videocassette.

I social media non sono l’orizzonte ultimo delle nostre possibilità online. Internet nasce con un modello economico profondamente diverso da quello delle piattaforme, e ancora oggi molti suoi pilastri mantengono modelli diversi, alcuni migliori, altri forse no (finanziamenti pubblici per la ricerca, subscription, copyleft, donazioni, acquisto di materiale digitale, forme ibride di business online/offline, pubblicità nativa eccetera).

Parallelamente ai modelli economici, esistono anche spazi web alternativi, di cui alcuni permettono un’esperienza simile ai social media (Mastodon), mentre altri ne propongono di diverse (blog, forum e wiki). Ci sono poi altre modalità di fruizione di contenuti, come le newsletter e i feed RSS, attraverso tecnologie che possono essere appropriate, comprese, hackerate. Proprio perché alcune tecnologie possono essere sviluppate molto semplicemente, sono meno remunerative per le aziende, non brandizzabili o controllabili in modo centralizzato, e perciò negli ultimi anni hanno avuto molti meno investimenti nello sviluppo software e nella ricerca di nuove applicazioni.

Se quindi capiamo che i social sono solo una delle opzioni che abbiamo, e capiamo cosa comportano, a quale modello fanno riferimento, verso che tipo di mondo ci portano, allora abbiamo gli strumenti per fare una scelta effettivamente politica quando decidiamo se usare o meno i social.

Dal nostro punto di vista, il lavoro politico per quanto riguarda i social media non è quello di cercare di eliminare a uno a uno i problemi di quel sistema e modello economico. Ma è di provare a produrre collettivamente delle alternative, e quindi anche educarci a scegliere, in base alle nostre necessità, preferenze e passioni, qual è l’alternativa migliore per noi. È molto più utile sforzarsi per creare opzioni più giuste che sforzarsi per rendere più gusti i social.


Qualche altro aspetto problematico dei social media su cui riflettere:


Credits

Testo di CollettivoContesto, immagini di 00v.

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